Liszt narratore / Sono suono (seconda parte)

Il pianista è immobile al centro della scena, tra i due infiniti pascaliani: infinito tutto e infinito nulla; egli è cioè a un tempo orchestra e direttore d’orchestra. Si dirige. Le sue braccia seguono il ritardo del gesto, ordinato dalla sua intenzione musicale, per garantire all’esecuzione quel suono di insieme che ci lega a noi stessi. Il pianoforte di rado suona come un pianoforte: imita, come si vede dalla scrittura vocale, “a salti”, quasi trenodica di Liszt, ora il canto della voce umana, ora il morbido dispiegarsi di un flauto, ora lo svolgersi sensuale del violoncello, ora il funebre squillare delle trombe. La tastiera per assurdo, non è mai se stessa.

Liszt, perciò, fu anche primo e forse unico regista della musica, non solo riproducendo spazialità e atmosfere in maniera oleografica, tanto fattiva quanto descrittiva, ma sapendo anche fare del mero rumore (si considerino i gravi dell’esordio di Funerailles) un elemento coreografico, e del silenzio una teatrale “pausa drammatica”, la snervante attesa prima dello slancio, o ancora lo stratagemma rapsodico che avrebbe permesso di esplodere alla trepidante sospensione tra i vari episodi, capitoli dei suoi libri musicali.

E nel buio dell’ascolto, tum, tum… tum di accordi quasi assenti; come accade nella Sonata in Si minore il cuore cessa di battere: la prima parte del brano muore. Ne incomincia un’altra. Adoperando uno sfuocato quasi leonardesco, Liszt sa generare una prospettiva mimetica nella sua musica: certi toni di accostamento cromatico timbrico e altri di giustapposizione tonale riproducono in certi casi la vicina, quasi tridimensionale, presenza centripeta delle note, e in altri la languida lontananza nostalgica di uno sguardo annebbiato, centrifugo e malinconico.

Più che poeta del romanticismo musicale – profilo all’unanimità riconosciuto a Chopin – Liszt è stato quindi narratore, prosatore dalla penna quasi gotica, più che mai polistilistica e polimaterica; “rapsodo” della musica di tutti i tempi, con un’unica, sacra missione: salvare i fenomeni, perché tutto alla tastiera venga riprodotto nel proprio essere molteplice, in divenire, secondo l’irriducibile complessità del reale. Ma l’Ungherese ebbe del narratore accanito anche quel senso di incertezza che appartenne – uno su tutti – a Dostoevskij: l’incapacità, cioè, di contenere il mezzo espressivo con il quale si sta comunicando, unita forse all’abuso dello stesso. Riportiamo le emozioni per iscritto per provarle, prima di averle provate.

A punto tale che nella sua vecchiaia, Liszt ribaltò il pianoforte: non più uno strumento orizzontale, smarrito fra drammatici arpeggi e roboanti scale, ma strumento verticale, fatto di profondissimi accordi, scarnificati e ridotti all’osso. Cromatismo e atonalità de La lugubre gondola; incubo di un vissuto che sembra non appartenerci: “voi siete imbarcato”. Saliscendi cromatico, nauseabondo e sempre più dissonante, in cui le note al microscopio paiono infinitesimi tableux vivants: scene logoranti o incantevoli della nostra vita, pose e scatti fotografici di ogni epoca, compattati fra loro per formare una nota.

Liberatosi della crisalide, si sparge per il mondo il nuovo virtuosismo del pianista: padroneggiare la sterminata gamma dei sentimenti umani, perché possano diventare suono, all’istante, quando il dito passando per la meccanica colpisce la corda, semplicissima e nuda, spogliata di ogni avere. Ed è semmai stupefacente che un telaio inanimato sia in grado di sorreggerli tutti, fluttuanti in quel sistema planetario che è la musica: interminabile inciso solistico, quasi improvvisato, che precede il concludersi di ogni cosa.

Sono rimasto solo nella sala da concerto; non riesco a smettere di tremare. Mi chiedo come faccia il pianoforte a rimanere immobile, quasi indifferente, di fronte a quelle mani che adesso, dall’acuto al grave, stanno ripercorrendo la tastiera. È tutta una cadenza, la vita.