Cos’è il contemporaneo

«È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo». Questa la posizione del filosofo Giorgio Agamben in un suo breve saggio intitolato “Che cos’è il contemporaneo”. Agamben fa riferimento alle “Considerazioni inattuali” di Friedrich Nietzsche, e in particolare alla seconda, “Sull’utilità e il danno della storia per la nostra vita”, laddove il filosofo tedesco colloca la sua stessa contemporaneità, la sua inconfutabile attualità, proprio in uno scollamento col presente: l’inattualità di una posizione è decisiva proprio per determinarne la contemporaneità, perché attraverso quest’anacronismo, essa ci permette di cogliere, di afferrare il tempo dell’oggi.

Chiaramente, questo non vuol dire che sia contemporaneo chi viva in maniera nostalgica, chi non accetti l’inesorabile passare del tempo e l’altrettanto inevitabile mutamento di costumi, poiché chiunque abbia un minimo di buon senso non può non sapere che, al di là del proprio individuale gradimento, è impossibile sfuggire alla propria epoca. Si tratta, piuttosto, di non coincidervi troppo pienamente, perché solo l’unione della consapevolezza del tempo cui si appartiene con una certa distanza dello sguardo da esso, in sintesi aderendovi eppure sfalsandone la percezione, permette di essere realmente contemporanei. Viene in mente Walter Benjamin, non a caso oggetto di studio tra i più proficui, per Agamben, che visse la sua breve, intensa e sfortunata esistenza esattamente in questa piega, tra la difficoltà a vivere tra la gente e, allo stesso tempo, l’incapacità ad allontanarsene definitivamente.

Queste riflessioni si adattano bene anche al concetto di contemporaneità in arte: spesso si vede, negli artisti d’oggi, un assecondare il gusto della maggioranza o, peggio ancora, l’esercizio di una pretesa opposizione al senso comune che ne diventa, in realtà, immagine perfettamente riflessa e altrettanto prevedibile. La vera contemporaneità, invece, non è mai stata compiacente, le grandi opere d’arte hanno sempre rivoluzionato il gusto corrente grazie a questa magica mistura tra anticipazione di ciò che sarebbe venuto dopo e leggibilità di una stagione, affidata ai posteri: pensiamo, per fare solo due esempi, al Sacre du printemps di Stravinskij o a Guernica di Picasso. Questi capolavori sono stati perfettamente contemporanei e hanno addirittura rappresentato un periodo storico, ma questo lo sappiamo noi, adesso: quando furono composti, non furono capiti da tutti – si pensi alla famosa “battaglia del Sacre”, cioè la tumultuosa serata della Prima del balletto, in cui il pubblico si divise, anche a suon di schiaffi e urla, tra sostenitori e oppositori dello spettacolo – eppure adesso ci sembrano tappe fondamentali nel descrivere con esattezza la temperie storica in cui furono concepiti. 

Al contrario, ogni ricerca affettata di effetti sensazionali, ogni trito tentativo – spesso fuori tempo massimo – di épater la bourgeoisie, non fanno che allontanare gli autori dal loro scopo presunto, rendendoli vittime di se stessi e irrimediabilmente “non contemporanei”: la Storia non avrà nessun interesse a tenerne conto, quando dovrà descrivere la nostra epoca.