Un mondo da ascoltare / Il fallimento dello sguardo

Sappiamo bene come l’eccessivo sviluppo di un pensiero ci allontani dalla vita immediata, dalla realtà. Una distanza che si amplia ulteriormente quando cerchiamo di affidare le nostre riflessioni alla linearità della parola scritta che teorizza, fantastica, idealizza.

Forse anche per questa ragione la musica non si è mai lasciata cogliere fino in fondo dal gioco sottile dell’intelletto incapace di affondare le sue radici nella “non ragione” superando l’insolubile dissidio tra razionalità ed istinto. Questa distanza dal mondo delle parole ha reso la musica inevitabilmente vulnerabile e apparentemente secondaria in un mondo dominato da un’incessante narrazione visionaria sorretta dallo sguardo e dall’immagine.

Un quadro di difficile decifrazione anche per l’assenza di riferimenti o ricerche. Se si escludono i resoconti biografici, la maggior parte degli studi sulla musica sono scritti analitici o musicologici sul testo musicale, sullo spartito, troppo spesso considerato una sorta di monade avulsa dalla realtà. L’ideale di purezza dell’opera in sé è stato ed è tuttora, un bisogno così forte da rendere il foglio pentagrammato l’unico oggetto di culto di una saggistica che si dedica quasi esclusivamente alla comprensione della partitura lontano dalla pratica esecutiva che in molti casi sembra quasi corrompere con i suoni la muta verità che si vuole gelosamente custodire sulla pagina.

Poche le eccezioni. Una tra queste è certamente Rumori, saggio sull’economia politica della musica, un libro oggi dimenticato e introvabile, scritto nel 1979 dal controverso saggista ed economista francese Jacques Attali. Un libro ambizioso, come del resto il suo autore (da alcuni anni ha iniziato anche un’attività come direttore d’orchestra), che tuttavia continua a sedurci per la scrittura immediata e intemperante, per l’audacia di alcune sue tesi e per la capacità che ha avuto di riannodare le vicende della musica all’interno di una suggestiva mappa filosofica, politica ed economica.

Velazquez – Las Meninas

Sono gli anni dello strutturalismo e del postmodernismo filosofico di Foucault, Lyotard, Deleuze, Guattari, Baudrillard. Gli anni in cui si cerca di ricostruire una teoria filosofica e politica di sinistra partendo da Nietzsche. Attali è testimone di questi movimenti che lo avvicinano a molti di questi autori. In particolare a Michel Foucault al quale si ispira nell’approccio archeologico al sapere e nella scelta stilistica di presentare un dipinto come spazio visivo simbolico alle proprie tesi. Se ne Le parole e le cose Foucault assume Las Meninas di Velazquez come immagine pittorica di una rappresentazione che si rappresenta in un gioco di rimandi tutto filosofico, Attali ritrova nel Combattimento tra Carnevale e Quaresima di Brueghel il vecchio, la tavola che annuncia la battaglia fra le due socialità fondamentali della norma e della festa. “Brueghel mette in scena questo conflitto in uno spazio pieno di vita: rumori naturali, rumori del gioco e del lavoro, musiche, risa, pianti, mormorii. Archeologia delle sonorità […] Bruegel non ci offre solo il mondo da vedere, ma da ascoltare. Da ascoltare come una meditazione sui rumori nei conflitti umani, sui pericoli di un annientamento della festa, di una vittoria del silenzio”.

Partendo dall’intuizione della musica come messa in forma, come addomesticamento del rumore, Attali cerca di costruire una cartografia dei legami tra la società e la sua musica. Una storia dei loro rapporti in cui distingue tre tappe, tre “utilizzazioni strategiche” della musica da parte del potere: “una dove tutto avviene come se la musica fosse utilizzata e prodotta nel rituale per tentare di far dimenticare la violenza generica, l’altra dove è impegnata a far credere all’armonia del mondo, all’ordine nello scambio, alla legittimità del potere mercantile, poi infine una dove serve a far tacere, producendo una musica in serie assordante e sincretica, censurando il resto dei rumori dell’uomo. Quando il potere vuol far dimenticare, la musica è sacrificio rituale, capro espiatorio, quando vuol far credere, è messa in scena, è rappresentazione, quando vuol far tacere, è riprodotta, standardizzata e diviene ripetizione”. Sacrificare, rappresentare e ripetere saranno quindi i titoli dei tre principali capitoli del libro.

Brueghel – Combattimento tra Carnevale e Quaresima

SACRIFICARE
“All’origine dell’idea religiosa, nella maggior parte delle culture c’è il tema del rumore, del suo ascolto e della sua messa in forma […] la musica è una strategia parallela alla religione. La musica fa rivivere la messa in forma del rumore, la canalizzazione della violenza essenziale. […] La musica si iscrive quindi tra il rumore e il silenzio nello spazio della codificazione sociale ch’essa rivela […] Il rumore è un’arma e la musica è, all’origine, l’addomesticamento, la ritualizzazione, dell’uso di questa arma in un simulacro di omicidio rituale”.

Il rumore come omicidio e la musica come sacrificio simbolico sono ipotesi onerose, non facili da accettare. Attali chiede aiuto a René Girard e al suo libro La violenza e il sacro, per descrivere il ruolo del rituale del sacrificio come “canalizzatore politico e sostituto alla violenza generale”. In questo senso se il rumore è violenza, disordine, fonte di sofferenza, la musica come processo di addomesticamento diviene simulacro di sacrificio, capro espiatorio con tutto ciò che di pericoloso e rassicurante contiene. “Ricreando differenze fra i suoni e reprimendo la tragicità della dissonanza duratura, la musica risponde al terrore del rumore, come il sacrificio rituale risponde al terrore della violenza […] Un’economia politica della musica esige anzitutto di ritrovare questo antico codice, di decifrarne il senso, per seguirne la trasformazione, attraverso lo scambio in valore d’uso, forma sviata, ricordo labile della sua ritualità”.

Nel sacrificio la funzione primaria della musica non dovrà essere ricercata nell’estetica, invenzione moderna, ma nell’efficacia della sua partecipazione a una regolamentazione sociale. Un lunghissimo periodo, dalle prime testimonianze dell’antichità fino alla seconda metà del diciottesimo secolo, dove il musicista, il prete, l’officiante o lo sciamano svolgeranno di fatto una medesima funzione. Un periodo in cui la musica ritmerà la nascita, il lavoro, la vita, la morte, organizzerà l’ordine sociale.

RAPPRESENTARE
Quando appare il denaro la musica cambia statuto e si inserisce nell’uso: “la merce la intrappola, la produce, la scambia, la fa circolare, la censura. Cessa allora di essere affermazione dell’esistenza per essere ridotta a valore”. Nel rito, nei concerti della nobiltà o nelle feste popolari, è ancora un elemento di coesione sociale, al contrario nella rappresentazione un diaframma separa l’esecuzione musicale dall’ascoltatore, nelle sale viene imposto il silenzio per permettere al momento esecutivo di assumere una propria esistenza autonoma distinta e prioritaria rispetto al pubblico. Invece di essere relazione essa si trasformerà presto in “monologo di specialisti di fronte ai consumatori”. Per Attali la figura dell’artista nascerà solo in quel momento, quando il suo lavoro inizierà ad essere messo in vendita.

L’imperativo è far credere “ad una rappresentazione consensuale del mondo, rimpiazzando la ritualizzazione perduta della canalizzazione della violenza attraverso lo spettacolo dell’assenza di violenza; di imprimere negli spettatori la fede in un’armonia, nell’ordine. […] Quando la musica è pagata per essere ascoltata, quando il musicista s’inscrive nella divisione del lavoro, è l’individualismo borghese che appare in scena. L’uso della musica non serve più a creare l’ordine, ma a far credere alla sua esistenza al suo valore universale, alla sua impossibilità al di fuori dello scambio”.

La rappresentazione della musica esige quindi uno spettacolo totale. “Ogni elemento adempie una funzione sociale e simbolica precisa: convincere della razionalità del mondo e della necessità della sua organizzazione. Seguendo i principi dello scambio la grande orchestra sinfonica sarà perfetta metafora di potere […] immagine del lavoro programmato nella nostra società”.

La fisionomia del musicista muta radicalmente. Svestito l’abito del funzionario salariato di corte o di cappella, si allontanerà gradualmente dal proprio protettore ed accrescerà la sua volontà di autonomia trovando un alleato nel filosofo dei lumi che lo spronerà ad uscire dalla sottomissione al mondo feudale ben rappresentata dall’antica pratica delle “epistole dedicatorie” sulle quali Attali si sofferma con diversi esempi: “E’ per vostra Maestà che ho intrapreso questa opera, non devo consacrarla che a voi, Sire, siete voi solo che ne dovete fare il destino. […] Descrivendo i doni sinceri che Perseo ha ricevuto dagli dei, e le meravigliose imprese che egli ha portato a termine così gloriosamente, traccio il ritratto delle qualità eroiche e delle azioni di Vostra Maestà” (il compositore Jean-Baptiste Lully a Luigi XIV).

Il mecenate non sparirà mai del tutto, ma la musica in quegli anni si inserirà definitivamente in una nuova realtà. Smetterà di essere oggetto destinato al solo piacere di nobili inattivi per diventare “elemento di un nuovo codice di potere, quello del consumatore solvibile, il borghese”.

Se nel sacrificio l’opera non aveva una sua esistenza autonoma, questa prende corpo nella riduzione a valore mercantile dell’oggetto partitura e del suo uso, i concerti, la rappresentazione. Su questo si sosterrà per quasi due secoli un’economia della musica dove editori, compositori ed interpreti tenteranno di spartirsi le rendite. Far credere implicò anche la necessità di addestrare dei musicisti all’altezza. Nacquero così i primi Conservatori come luoghi selettivi di istruzione che sostituirono la libera formazione dei giullari e dei menestrelli. Scuole severe dove i ragazzi venivano presi giovanissimi: “le uniche vacanze si avevano in autunno e non duravano che qualche giorno. Durante l’inverno i ragazzi si alzavano due ore prima del giorno fatto e continuavano i loro esercizi con l’eccezione di un’ora e mezza per il pranzo, fino alle otto di sera”.

Non ci vorrà molto per innescare un processo di selezione sottomesso alla concorrenza. La nascita del virtuoso, della vedette accelererà il processo di mercificazione della musica, la selezione e l’isolamento del musicista “arricchendo solo quelli conformi alle richieste dei nuovi consumatori”. Non tutti saranno in grado di adeguarsi alle nuove leggi del mercato. Tra i diversi esempi citati, particolarmente significativo quello di un Mozart già malato che vive in tutto il suo travaglio questa fase storica che gli imponeva di essere anche impresario di sé stesso: “A causa della mia malattia non ho potuto guadagnare denaro. Nonostante il mio stato malandato, ho deciso di dare dei concerti per sottoscrizione a casa mia per poter far fronte almeno alle mie spese quotidiane. Ma anche questa è andata a monte. Quindici giorni fa ho inviato la mia lista agli eventuali abbonati, e fino a ora, non ho ricevuto che una sola risposta.” Mozart morirà poco dopo pieno di debiti e con un patrimonio di soli sessanta fiorini.

La rappresentazione si svilupperà ulteriormente nel diciannovesimo secolo quando verrà introdotto un sistema di remunerazione del compositore attraverso un’impresa specializzata, delegata dal musicista ad introitare la totalità dei suoi diritti. Nasceranno così le prime società degli autori ed editori che si svilupperanno lentamente attraverso legislazioni complesse che tenteranno di regolamentare il controllo del capitale su ogni forma di esecuzione musicale.

Jacques Attali

RIPETERE

La musica per essere ascoltata, utilizzata, consumata esige un tempo incomprimibile, quello della propria durata, Con l’avvento della registrazione, il tempo viene stoccato, immagazzinato in modo da poter essere distribuito, venduto e riutilizzato in un secondo momento. Qui si verifica la contraddizione maggiore della ripetizione “l’uomo deve consacrare il proprio tempo a produrre i mezzi per acquistare la registrazione del tempo degli altri, perdendo non solo l’uso del proprio tempo, ma anche il tempo necessario all’uso di quello degli altri”.

Attali ci ricorda come il potere di registrare i suoni fosse considerato, con quello di fare la guerra e di ridurre alla fame, uno dei tre poteri essenziali degli dei in diverse società antiche: “registrare è da sempre un mezzo di controllo sociale, una posta politica. Il potere non si accontenta più di mettere in scena la propria legittimità, esso registra e riproduce le società delle quali è gestore. […] Allorché la tecnologia occidentale alla fine del diciannovesimo secolo, la rende possibile, la registrazione del suono sarà concepita dapprima come un ausilio politico della rappresentazione […] in seguito contribuirà a far emergere invece una nuova società, quella della produzione in serie, della ripetizione, del non progetto. L’uso non sarà più godimento di un lavoro in atto, ma consumo di una replica […] la morte dell’originale, la vittoria della copia”.

Sul piano estetico l’avvento della registrazione escluderà ogni rumore, disturbo, errore, incertezza isolando e paralizzando l’opera fuori da ogni contesto. L’esecuzione sarà costantemente manipolata dagli interventi dei tecnici, che dovranno garantire un prodotto sonoro di astratta perfezione.

La musica ripetitiva moltiplicherà la sua diffusione con nuove tecnologie sempre più versatili imponendo la sua costante presenza come sostituto della relazione. “Essa creerà un sistema di valori apolitico, aconflittuale, idealizzato. Ma far tacere esige, al di là dell’acquisto, l’insinuazione generale di questa musica. Così essa sostituirà il rumore di fondo naturale e scivolerà negli spazi sempre più grandi dell’attività svuotata di senso e di relazioni”. Un flusso costante di musica ripetuta e consumata come surrogato di socialità.

Sbaglia chi oggi cerca il ruolo politico della musica in ciò che essa veicola, le sue melodie o i suoi testi, “con la sua presenza invadente, assordante, il potere può stare tranquillo, gli uomini non si parlano più”. La ripetizione è il preludio di un freddo silenzio sociale dove il godimento avverrà per effetto ipnotico. “La gioventù d’oggi è forse sul punto di sperimentare questa favolosa e ultima canalizzazione del desiderio: in una società nella quale il potere è così astratto che non può più essere afferrato, o la peggiore delle minacce temute è la solitudine e non l’alienazione, la conformità alla norma diventa godimento di appartenenza, l’accettazione dell’impotenza si installa nel conforto della ripetizione”.

Anche per questo oggi ogni rumore evoca ancor di più un’idea di sovversione. Attali lo spiega bene analizzando le norme sulla quiete pubblica in Francia: “la repressione degli schiamazzi non era, prima della rivoluzione industriale, oggetto di alcuna legislazione. Il diritto al rumore era un diritto naturale, un’affermazione dell’autonomia di ognuno”. Oggi non è più così ed anche l’intensità del rumore di un semplice clacson è fissata con precisione affinché non superi certi decibel e ne siano definite norme che ne autorizzino solo un uso specifico. Quello stesso suono di clacson rumoroso e liberatorio dei caroselli automobilistici che inneggiano alla vittoria della propria squadra o che festeggiano l’arrivo del nuovo anno.

Sulla musica Attali scrive ovviamente molto altro: ne reclama il valore profetico ritenendola da sempre capace di annunciare i mutamenti futuri di una società e ne sottolinea la forza terapeutica, purificatrice, liberatrice, radicata in un’idea globale del sapere sul corpo. L’invito ultimo è quello di rimetterci in ascolto dopo venticinque secoli in cui la cultura occidentale ha cercato di farci guardare il mondo. “Non ha capito invece che il mondo non si guarda, si ode, non si legge, si ascolta. […] Lo sguardo ha fallito, lo sguardo che non vede più il nostro avvenire, che ha edificato un presente fatto di astrazione, di assurdità e di silenzio. Allora bisogna imparare a giudicare una società in base ai suoi rumori, alla sua musica, alla sua festa”.

 

La foto di apertura è di ERIK JOHANSSON e si intitola Soundscapes 2015