Il “platonismo” di Glenn Gould / Filosofia dell’interpretazione musicale

Glenn Gould  –  Claudio Arrau. Quale opposizione più totale, quale assoluta eterogeneità tra due interpreti grandissimi, che hanno segnato la storia dell’interpretazione musicale e della Musica, oltreché, in molti modi, del Pianoforte!

Proverei a tracciare, in due puntate, un discanto, un embrione di contrappunto, a due voci. Da un canto, il platonico Gould, l’asceta che “forzosamente si separa da ciò che più ama”; l’Artista dal quale Piero Rattalino, con il suo infallibile acume, disse di aspettarsi, alla fine della vita, la più sconvolgente delle dichiarazioni: “Chopin, ti amo”; il “mago del timbro”, che tuttavia trattò sempre il pianoforte come strumento da negare e trascendere. D’altro canto, il dolce, coraggioso, candido Claudio Arrau: l’uomo che nel concerto pubblico vede una nobile occasione di autoconoscenza, di espressione d’ansie comuni, d’umanità e di storia: veicolabili solo mercé il rischio estremo del concerto dal vivo; il pianista innamorato di Liszt, e di tutto il mondo romantico; l’uomo che scoprì un altro se stesso dopo una crisi spaventosa, dipanata grazie alla psicologia jungiana, all’osservazione dei sogni e all’esplorazione, attraverso l’interpretazione musicale, di molte possibilità d’essere, di molteplici io.

Glenn Gould, nato a Toronto nel 1932, tiene il suo ultimo concerto a Los Angeles, il 10 aprile 1964. Da allora, oltre ad attenersi sino alla morte al proposito di non sottostare mai più alla “tirannia feroce e idiota del concerto pubblico”, intratterrà con il mondo musicale a lui contemporaneo rapporti rigorosamente filtrati dalla tecnologia: si produce in una serie fittissima di incisioni discografiche e motiva il suo “gran rifiuto” attraverso interviste, scritti e dichiarazioni che recano lo stigma del discorso altamente filosofico, cioè teologico ed etico.

Teologia? Etica? 

Per ciò che riguarda l’etica, passi. Comprendiamo abbastanza facilmente quanto la routine dei concerti (fissati con anni di anticipo) agisca come forza contraria all’ispirazione e alla libertà. L’aspetto ripetitivo della vita del concertista è avvilente e fonte di enormi sprechi, dice Gould; inoltre quando si danno concerti “semplicemente si bara: quasi non si esplorano più nuovi repertori e ci si accontenta di suonare sempre più spesso e stancamente gli stessi pezzi con il minor lavoro possibile”. Fatalmente – in forza della logica performativa del concerto – ci si lega a meccanismi di difesa che inibiscono crisi radicali e dunque impediscono approcci nuovi.

Perché tollerare la tachicardia, poi! E le mani fredde; e l’ansia: fattori disturbanti, non solo inutili, ma assolutamente nocivi alla libera espressione della creatività dell’interprete: che consiste in una “potente identificazione, senza residui, con la musica”: soprattutto senza interferenze. L’assetto circense del concerto gli è odioso; l’acustica delle sale in cui è costretto a traslocare ogni giorno travisa, e di molto, gli equilibri sonori intuiti e studiati in privato, e introduce abitudini malsane e immorali nei capolavori più alti. 

Ecco, con gli ultimi concetti ci siamo già avvicinati all’assetto assolutamente metafisico dell’approccio di Gould alla musica: alla fine di questa breve disamina, potremo affermare con ragione che egli è un platonico, e di una specie particolarmente pura. E che però, anche, o theos parla attraverso di lui, l’ultimo dei dionisiaci.

Quale, difatti, il momento fatale in cui Gould ha l’intuizione di un approccio rivoluzionario alla musica? 

Avviene a quindici anni, con una Fuga di Mozart: “ero intento a studiare quella strana forma in cui il Salisburghese ‘si cimenta senza riuscire a farle prendere quota’ – racconta, con la sua voce bassa e affabile, straordinariamente radiofonica  – quando, ecco, improvvisamente, la donna delle pulizie accende l’aspirapolvere rendendomi impossibile sentire alcunché“. 

Continua a suonare, ma tutto cambia: quella musica, attinta solo in quanto svolgimento di linee in uno spazio autogenerato, è ora tattile, insonora, originaria; ed egli ne segue le voci come sviluppi di enti logici e divini, fortemente necessitati a un rapporto reciproco, finalmente affrancato da convenzioni e abitudini che l’occhio e l’orecchio fisici attivano automaticamente: questa è musica sorgiva! Ora gli è chiaro: il pezzo è struttura metafisica che solo in un secondo momento può diventare sonora (esso esiste già nel suo puro assetto metafisico, in quanto forma visibile all’intelletto, in quanto eidos); e il passaggio dalla dimensione silente e piena alla sua sonorazione diacronica e concreta è già, platonicamente, una prima forma di incarnazione: cui si perdona la fisicità se e solo se questa apparizione – il pezzo inscritto nel mondo del suono fisico, realmente suonato –  recherà lo stigma dell’intuizione ricevuta in silenzio, con gli occhi fissi sul sistema d’essenze.

Così, una visione contemplativa di tipo platonico, che vive della presenza totale del logos – ovvero, di questo sistema di rapporti divini che il pezzo è – e che pure chiede all’interprete una assimilazione ben più che solo intellettuale, è per Gould alla base, anzi al vertice, di qualsiasi resa in musica. Resa che è traduzione di essenze. Esattamente come per Platone la contemplabilità congelata del logos silente e inarticolato, tutto presente, precede, da un punto di vista ontologico e logico, sia il pensiero diacronico, articolato in concetti, sia la sua dimensione sonora e comunicativa.

Platonico è, in Gould, l’approccio al pianoforte: di cui egli rifiuta gli esiti borghesi e spettacolari, e in fin dei conti il repertorio più tipico, con il mondo ad esso connesso. Però egli suona il pianoforte: imitando il vibrato del clavicordo, la ferraglia del clavicembalo, i suoni ansimanti e soffiati dell’organo; oppure, costituendo un suono altro, un teatro di matematiche e rapporti. Perché? Dobbiamo concludere che il pianoforte attrae e avvince a sé Gould in quanto si offre quale strumento che abbisogna di un trascendimento e di una negazione totali e continue. È lo strumento che costringe Gould a non pascersi, nemmeno per un attimo, di ciò che sente, vede, o in genere viene fatto.

Egli è platonico anche nella tensione eroica verso un affrancamento da abitudini mimetiche, ripetute per inerzia, che affliggono il pubblico suo come quello del Platone storico (Erik A. Havelock conduce una interessantissima disamina a questo proposito proprio intorno a Platone nello splendido Cultura orale e civiltà della scrittura): come Platone, Gould vuol costituirsi quale uomo autonomos nel senso etimologico del termine, non più disposto a soggiacere all’ipnotismo delle scene, alle seduzioni dello spettacolo – e del mimetes che ne impersona assetti istrioneschi e ne perpetua la forma d’intrattenimento, poco impegnata, emotiva, condizionata e irriflessa. No: qui dire significa essere nuovo messaggio (Gould è vissuto come fortissimo anticonformista ancora oggi); costituirsi come “pietra d’inciampo che impedisce alla melma del fiume di trasportarti a valle con tutti i suoi detriti”; selezionare, scegliere, vagliare, eligere. E così attingere alle più alte profondità dello spirito. Certo tramite una forma di mìmesis: ma una mìmesis non meramente imitativa, ma nobile, filosofica, che consiste nella più pura identificazione e risoluzione in ciò che è oggetto di contemplazione per eccellenza: l’essere stesso, la perfezione del logos.

E dopo il rapporto “follemente intenso” con questo pezzo, indagare altro, passare ad altro, senza altro obbligo che assecondare il desiderio dello spirito. Libero. 

Il ruolo dell’interprete e del suo specifico intuere è molto singolare e problematico, in Gould: poiché egli non si sente certo solo un trascrittore di segni divini, ma un musicista il cui compito è, testualmente, “ricreare l’opera, trasformare l’atto interpretativo in atto creativo“.

Questa tensione verso la co-creazione dell’opera fonda il pieno diritto, allora, di violare canoni filologici, di abbattere gli steccati del gusto, della misura, del sensus communis storicamente condizionato e sancito da altre interpretazioni. L’anima luterana di Gould appare qui in tutta la sua pregnanza: lettura diretta, approccio non-mediato dalla storia, ricreazione: rigore. Su questa precisa base, Gould crea un Mozart straordinariamente spiazzante: invece di apprezzare ciò che di Mozart è proprio e valorizzarlo (certi ricami melodici purissimi, per esempio), egli crea della polifonia ove non esiste (trasformando un semplice basso albertino in un gioco contrappuntistico a più parti – che oscura però la bellezza del melos alla mano destra, ridotto a una voce tra le tante): ciò in nome di una necessità etica e ontologica: introdurre in Mozart una imprescindibile dimensione dello spirito che “gli manca”! Distorcere il basso “al fine di suscitare l’effetto di una Triosonata” fa parte dell’approccio di Gould a Mendelssohn. E l’eretica interpretazione dell’Appassionata, letta come sviluppo di un dramma barocco tedesco, in una assoluta assenza di Sturm und Drang?  

Strutturalismo e purezza di linee fanno pensare a Maria Judina e a Todorov: Gould invero è, in più sensi probabilmente tutti da indagare, ponte vivente tra il lembo nordico estremo del continente americano e l’Unione sovietica, erede a sua volta di un pianismo russo incline a letture polifoniche “assolute”, parlanti: così in Sofronitzkij e, prima ancora, in Skrjabin, assai apprezzato da Gould.

Di stampo filosofico è pure l’approccio di Gould al grande enigma del tempo. “Posso giustificare una Fuga al doppio e alla metà della velocità”- dice. Perché? Perché la Fuga, e ingenerale tutta la polifonia, è questione cosmica – insita nelle dinamiche empedoclee della physis, implicata nei più arditi paradoxa di Zenone intorno al tempo – e insieme profondamente esistenziale. La piega esistenziale della polifonia si fa sentire tutta nella concezione di fondo, e di struttura, che Gould imprime a deliziosi documentari televisivi che gira per la CBS una volta libero dal capestro dei concerti pubblici. Tutti imperniati su un’idea di ricerca di paesaggio interiore, trovata nell’estremo Nord del mondo (Terranova, per esempio), essi consistono nella narrazione a più voci (contemporanee: una sorta di contrappunto parlato) di vicende esistenziali eterogenee e in qualche modo affini: nessuna voce tange le altre: tutte sono compresenti nella struttura fugata del documentario, ove lo sciabordio ritmico delle onde funge da basso continuo, ove l’incontro tra i parlanti è garantito dal rigore del “quadro” polifonico. 

Straordinaria la dilatazione del tempo nell’ultima versione delle Variazioni Goldberg:  vibrazioni, possibilità, scelte, sono vissute come dall’interno del materiale sonoro stesso e dei suoi intimi battimenti. Fuga, d’altra parte, Glenn lo ha sempre detto sin da ragazzo, è forma della libertà. Qui Gould è stupefacente: è capace di legare Bach all’Atalanta fugiens di Mayer, agli enigmi a chiave, ai quadri ontologici dalle linee convertibili in cattedrali di suoni. Non solo: egli connette e sente, nella Fuga, l’estro e l’adeguamento a ciò che è dato: come inscritto nell’etimo di invenio, da cui “rinvenimento, scoperta” e insieme “pura invenzione”. 

Chiudiamo con una evocazione: appartiene all’ultimo Gould la pubblicazione delle Quattro Ballate op. 10 di Brahms. Questa meravigliosa incisione tratta le Ballate senza alcuna concessione alle atmosfere vagamente ossianiche che altri interpreti (Hélène Grimaud, per esempio) vogliono legittimamente vedervi. L’approccio di Gould è strutturalista: e, ci dice, impara i pezzi in macchina, durante le passeggiate nei boschi, rigorosamente lontano dallo strumento. Le suona per la prima volta – chiarissime in mente – in studio di registrazione. L’intervista che rilascia in proposito però ci sorprende: per la prima volta allude chiaramente al fatto che il momento esistenziale della registrazione – l’ora zero, frutto di innumerevoli casuali incroci, condizionata da situazione emotiva contingente – sia parte integrante dell’opera. E così ci autorizza a chiederci, sulla scia di quella venatura romantica intuita da Piero Rattalino e ammessa da lui stesso, come Gould consideri il suo stesso corpo: cangiante, negato, trasceso; eppure presente, come fonte di emozione, come guida profonda: corpo che sentiamo, nella sua voce bassissima e piena di armonici, capace di aggiungere altre voci al contrappunto già esistente, in ogni registrazione. Siamo colpiti anche dalla componente erotica che apre e strazia il corpo di Gould in fase di esecuzione: e quella danza dionisiaca che lo afferra!

Proprio le leggi del corpo ci condurranno lontano, in un universo multicolore, caldo, abitato da Claudio Arrau: ma non abbandoneremo Gould e gli enigmi da lui messi in campo. Gould attinge a una voce interiore che è anche celeste: è capace, come i primi romantici tedeschi, di fantasticare sugli aspetti notturni della natura, e vive prevalentemente di notte. Arrau esprime un profondo, accogliente, diurno accordo con il mondo: guadagnato, però, attraverso terribili prove.