L’emisfero di un abbraccio

Vibrano con suono di campana le mani di Beatrice. Come un accordo lasciato riverberare, la “catena di mani soccorritrici” risuona di un’armonia appena nata, sovrapposizione delle mani della Vergine, di Lucia, di Virgilio, Beatrice stessa e San Bernardo. Una vita sull’altra si propaga, tutte le vite in una. L’impressione di una musica lontana ha trascinato Dante nel suo viaggio, quasi a voler abbattere, un cielo dopo l’altro, tutte le frontiere che ostacolavano la potenza sorgiva di quel suono. È questa la “fatica del concetto” delle tre cantiche: un’armonia che, in principio, non può darsi immediatamente, ma anzi un’armonia mediata, che soltanto nel Paradiso può svolgersi nella forma della pura intuizione, senza significato “per verba”: la musica del “trasumanar”, che vibra nella cassa armonica del cielo. Scrive Barenboim, “la musica sveglia il tempo”: essa è nel mondo, ma anche fuori dal mondo; allude a un ordine impercettibile, anticipatrice dell’armonia che deve ancora venire. La musica è quindi arte della prolessi, dell’attesa determinata di un indeterminato, colto tramite pura intuizione: ogni nota è pronta a deviare la sua traiettoria, a incarnarsi in una forma che coinvolge o sconvolge le nostre previsioni, disincagliando la nostra vita dalla paralisi. Faust: “Perché mi cercate nella polvere, suoni celesti potenti e lievi? Risuonate dove sono uomini deboli. Eppure con le note consuete in gioventù la fede mi richiama ora alla vita. Nella quiete solenne del sabato scendeva su di me il bacio, allora, dell’amore celeste, le campane presaghe suonavano a distesa, pregare era un’ardente voluttà; mi spingeva a vagare per i boschi ed i prati un dolce struggimento che io non mi spiegavo, e fra mille lacrime cocenti sentivo in me nascere un mondo”. L’improvviso suono delle campane – tanto caro al pianismo impressionista di Rachmaninov – sorprende il disperato Faust nel tentativo, provvidenzialmente interrotto, del suicidio. La musica segna, allora, la nascita di un mondo. Le vibrazioni riassorbono il nostro fluire nel tempo: richiamano a sé, riportano all’unità le onde temporali, come anelli concentrici sulla superficie dell’acqua, increspata nel suo silenzio vitale. La musica dà vita ai contorni delle cose: abbracciando l’invisibile ne abbozza la fisionomia. Si posa sulla nostra pelle, lo spazio vuoto si fa tessuto connettivo. 

“Sono andato per tracciare i contorni di un’isola e invece ho scoperto i confini dell’oceano”. Declinando l’immagine del filosofo Wittgenstein, anche la musica, circondandoci e animando i nostri contorni, sembra in realtà rivelare i confini dell’armonia che ci circonda. Il desiderio illuminato in noi non è quindi legato tanto al suo ascolto immediato, quanto all’intuizione di un futuro preordinato; la prolessi ci proietta oltre noi stessi. Secondo una climax chopiniana, risiede già negli inferi l’attesa della luce, in quell’ansia di superamento che solo lo scorrere della musica può suggerire. Giunto al cospetto di Dio, il poeta non può che soccombere all’ineffabilità: la musica abbraccia l’assoluto, ne traccia i confini, arginando l’afasia letteraria: ma non è tanto Dio quell’”isola” che Dante vuole e non può descrivere quanto l’”oceano” che le sta attorno: la vita umana, il mondo purgatoriale, l’Inferno sono già Dio. Così Dante, divinizza l’uomo, che gode del suo stesso limite conoscitivo. È sufficiente il contatto con l’armonia universale per dare significato ad ogni nota, ad ognuno di noi. Quante volte in un abbraccio cerchiamo quell’unità impossibile che pare incarnarsi all’improvviso: come onde sulla riva, delimitiamo i confini di chi amiamo, ma in questo infrangersi sta anche il riconoscimento estatico della nostra forma e di tutto ciò che ci circonda. Ogni abbraccio non è rivolto solo al corpo tremante che ho di fronte, ma accoglie il mondo intero, ne scopre i contorni; alla chiusura nella propria isolata intimità, consegue e corrisponde la restante, immensa parte dell’”oceano”: tutto un emisfero alle mie spalle. Quello della musica è l’abbraccio più generoso ed improbo: impercettibile, ci avvolge, e nel vuoto dà forma al pieno, mentre la vista si offusca e già scorgiamo un campo, una casa in fondo alla via, un volto che sporge dalla porta. Ecco i suoni della nostra memoria. È la crudeltà di questo sogno evanescente, che butta polvere colorata sul corpo invisibile della vita, così da scorgerne le curve, mentre questa ci stringe al petto, innamorata, soltanto per aprirci al tutto, con carezze che fanno il rumore delle campane. Nelle braccia stese si nasconde un sorriso imbarazzato, e dentro di noi serbiamo un religioso silenzio, ma cogliamo l’abbraccio armonico dell’esistenza, una catena arpeggiata che ci soccorre.  Lo griderà il maestro Bernstein, in una delle sue poesie di una genuinità entusiastica e prorompente: “La vita senza musica è impensabile, / La musica senza vita è teoria. / Per questo il mio contatto con la musica è un abbraccio totale”. 

Sfiori le nocche della mia mano: ne sgorga un suono, una nota ben precisa; alla morbidezza del tatto, ad ogni gesto corrispondono armonie e disarmonie. Per Muti, cultore del Paradiso, la musica si esprime nella forma del “rapimento”; essa ci travolge anche quando non la comprendiamo, quasi ci guidasse su una strada che non siamo consapevoli di seguire: sta nella vibrazione e quindi nel contatto il potere arcano della musica. Prima ancora di essere suono, l’armonia è oscillazione di onde che imprimono direzione, ricerca di una compiutezza che vorremmo realizzare. La musica è promessa. “E come giga e arpa, in tempra tesa / di molte corde, fa dolce tintinno / a tal da cui la nota non è intesa, / così da’ lumi che lì m’apparinno / s’accogliea per la croce una melode / che mi rapiva, sanza intender l’inno” (Canto XIV). Anche chi non la percepisce a pieno nell’ascolto può godere del trasporto della musica, e anzi l’apparente impotenza o annullamento della vista o dell’udito trasporta i sensi verso un contatto diretto con le stringhe vibranti che regolano l’universo, in una mistica ricerca di sinestesia e consonanza, che ispirerà il Poème de l’Extase di Skrjabin. Infatti, lo stesso Dante nelle tre fasi della teofania va incontro a un progressivo mutamento della vista, che lo consegnerà alla contemplazione finale, all’insegna dell’excessus mentis. Come riporta Hegel nella Fenomenologia (VII. Religione), “l’aspetto mistico non consiste nel celare un segreto, né in un non-sapere, bensì nel fatto che il Sé sa di essere tutt’uno con l’essenza, e quest’essenza dunque è rivelata. In questo godimento è svelato dunque che cosa mai sia quell’essenza luminosa che sorge a oriente”. 

Beethoven, nella sua vecchiaia sperimentò i caratteri di una sordità quasi totale: il suo rapporto con la tastiera fu di peso e vibrazione, tensione all’ignoto che spinge – paradossalmente – alla scoperta di ciò che all’apparenza non si può comprendere. È quel “rapimento”, fatto di rapimento intuitivo e tensione all’assoluto, che spinse il genio di Bonn a “trasumanar”, sprofondando nell’armonia dell’inudibile. Nel segno dell’estasi “l’animo del poeta – ma anche del compositore – oscilla fra la dignitosa affermazione del proprio valore personale e l’umile abbandono nelle braccia delle divinità” (Vossler, La religiosità di Dante). L’abbraccio è un tentativo di accecarsi, tornare nell’apeiron, spegnersi e riaccendersi nel divenire musicale. Così come la vista nel caso di Dante, l’udito per Beethoven si avvalora nella perdita. “Da una parte risorge il contrappunto disprezzato un tempo da Beethoven, quasi simbolo di pedante aridità; d’altra parte le melodie più innocenti fioriscono talvolta su accompagnamenti banali nel più completo disprezzo d’ogni elaborazione. La portata spirituale di tale opera si volge decisamente a una trascendente spiritualizzazione. Da una poesia tutta vigoroso rilievo e concretezza di forma plastica, paragonabile a quella dell’Inferno dantesco, si ascende ad una smateriata poesia tutta luci e trasparenze, paragonabile a quella del Paradiso” (Massimo Mila). Il Sé di Beethoven – trasponendo le parole di Hegel – “non è più quell’individualità in tensione che è propria dell’artista, la quale non s’è ancora conciliata con la propria essenza che si fa oggettiva; bensì è la notte appagata che, priva di bisogni, ha in se stessa il suo pathos, poiché fa il proprio ritorno muovendo dall’intuizione, dall’oggettività ormai levata. Questo pathos costituisce per sé l’essenza di quel sorgere a oriente”. Nella terza cantica, la parola sfaldata dalla luce soccombe alla musica, che proprio per la sua essenziale visceralità trascende la comprensione razionale, fino anche al silenzio che è puro significato senza significante: l’armonia, infatti, nell’Empireo diventa visibile nella Candida Rosa, ma poi sparisce, come ogni altra forma, di fronte al raggio della luce divina. Da singoli frammenti spezzati, pagine squadernate per l’universo, si giunge a un unico volume “legato con amore”, compiuto nell’abbraccio del suo Fattore. Ma dell’incontro incommensurabile fra Dio e uomo parrebbe restare solo un emisfero, la mezza parte di un abbraccio, l’unica rappresentabile. Ma è come se l’Inno alla gioia andasse ancora scritto, e noi tuttavia lo sentissimo nota per nota, perché l’emisfero umano è un “vuoto pienissimo”, e l’uomo è Dio e Dio è uomo: l’emisfero ridiventa sfera, nel segno della “rota” del cosmo, che armonizza il “disio” e il “velle”. 

Seguo come un cieco i rilievi della vita, le sue vibrazioni, mentre ogni armonia tende alla risoluzione nella tonalità. Ho abbracciato la fragilità di una ragazza. Non ero soltanto tutt’uno con lei, ma con ciò a cui davo le spalle: chiuso su chi abbraccio, aperto alla vita; nell’abbracciare una delle docili fibre dell’universo, non ci avvediamo di abbracciare, in verità, l’universo stesso. Allora si riempie lo spazio vuoto di un abbraccio, con una colata di respiri. Le parole maturano: solo quando viviamo musicalmente. Fra le braccia ho un’isola, l’oceano è scoperto, e brilla nell’angolo dividendo il mio orecchio tra le arcate di un violino e il suo fragore incontenibile.