L’evanescenza del suono

Si dice di udire un suono, così come di vedere una cosa, di afferrarla o di toccarla. Ma è appena il caso di notare che il suono è un’entità di tutt’altro genere della cosa materiale che mi sta di fronte, che vedo in un determinato luogo dello spazio circostante, che io posso afferrare con le mie mani ed eventualmente riporre in un altro luogo. Come la voce in eco, il suono aleggia nell’aria diffondendosi nello spazio intorno. Il suo essere «qualcosa» non può non apparire già per questo ricco di problemi, dal momento che se da un lato sembra giustificato, come suggeriscono gli impieghi linguistici correnti, far riferimento al suono come ad un «oggetto» autentico, dall’altro mancano qui quella determinatezza e quella stabilità che potrebbero forse essere poste a condizione dell’oggettività stessa. Ma se i suoni non sono assimilabili alle cose, non lo sono nemmeno a proprietà delle cose, come è invece stato assunto da un’antica tradizione. Come nel caso dei colori, anche ai suoni si è attribuito lo statuto di «qualità secondarie» – quindi di qualità che non ineriscono alla cosa obbiettivamente, ma che comunque sorgono in inerenza ad essa nel rapporto con la soggettività percettiva. Si ammette così che colori e suoni siano da annoverare tra le proprietà che appartengono alle cose, comunque venga poi intesa questa relazione di appartenenza. Eppure proprio su questo punto il confronto tra colori e suoni, così ricco di suggestioni interne e sul quale la riflessione si è sempre esercitata con profitto, sembra piuttosto segnalare una profonda differenza. Come si parla di una cosa colorata, così si può forse parlare di una cosa sonora, ma subito si avverte una modificazione di senso. Il suono sta nella cosa come una potenzialità che ha bisogno di essere attualizzata. Esso c’è in forza di un’azione esercitata sulla cosa. Ma possiamo forse affermare per questo che il suono sia impensabile senza la cosa attraverso cui è stato prodotto? Più precisamente, e riprendendo il confronto con il colore: un colore, ad esempio l’azzurro, può essere soltanto pensato senza il riferimento a cose, mentre il suono può essere anche percepito. Proprio questa possibilità di percezione autonoma che potrebbe attribuire al suono una singolare solidità, è invece ciò che ci fa esitare tra lo statuto della proprietà e quello dell’oggetto e che conferisce al suono la sua essenziale inconsistenza. Il suono è sempre sul punto di dileguare e questa evanescenza può essere ricondotta all’assenza di vincoli rispetto alla cosa materiale alla cui costituzione, del resto, l’udito non sembra svolgere un ruolo paragonabile a quello della vista o del tatto. Queste operazioni percettive sono subito coinvolte non solo nell’istituzione di quella forma di rapporto che fa del dato fenomenico la proprietà di una cosa, ma anche nei processi che operano la discriminazione tra la cosa posta come effettivamente sussistente e la parvenza illusoria. Nel gioco delle reciproche conferme, ciò che si dà anzitutto come semplice visione, e dunque come fantasma puramente visivo – ad esempio, una forma colta di lontano – può ricevere una conferma pratico-tattile, cosicché questa fantomaticità si attenua sempre più lasciando avanzare la cosa nelle sue determinazioni obbiettive. Sullo sfondo del problema vi è del resto la stessa obbiettività del mondo, il fatto che il mondo non è una mia rappresentazione, ma mi sta fermamente di fronte come se le cose, nella loro durezza e solidità, fossero i nuclei su cui esso si sostiene. Di fronte a tutto ciò vi è la fluidità acquorea del suono, la sua mobilità ignea, la sua aerea evanescenza. Solo la terra, nella quale si concentra la materia con tutto il suo peso, sembra estranea al suono. In rapporto a esso il tema dell’obbiettività e dell’esserci obbiettivo può affermarsi solo in modo estremamente debole. Occorre notare a questo proposito che non esiste alcun accertamento intrafenomenico al di là dell’udito che possa farci decidere intorno all’esserci effettivo di una manifestazione sonora. Il dato uditivo come tale si impone senz’altro nel suo esserci al di là di operazioni di sintesi più complesse – cosicché viene qui a mancare la possibilità di una conferma, come accade nel caso del rapporto tra dati visivi e dati tattili. E ciò non significa affatto un rafforzamento della posizione d’essere, ma al contrario massima prossimità dell’esserci effettivo del suono alla pura apparenza, difficoltà di principio nella discriminazione tra il suono come qualcosa che effettivamente c’è nel mondo circostante e la pura allucinazione uditiva. I suoni sono entità eminentemente fantomatiche. Ma dicendo ciò non attiriamo soltanto l’attenzione sul fatto che i suoni sono anzitutto fantasmi uditivi la cui sussistenza obbiettiva può essere considerata ambigua in via di principio. Alla base di ciò vi è un problema più generale: il modo d’essere del suono sembra mettere in questione la stessa necessità di integrazione del suono tra gli eventi del mondo. Da che cos’altro deriva questa fantomaticità se non dal fatto che il suono può apparire come interamente disciolto da vincoli rispetto ad un qualunque contesto di cose, e dunque dal contesto del mondo stesso? Su questa possibile assolutezza del suono ha potuto certamente trovare se non un fondamento, almeno un appiglio, l’idea, che si ripresenta di continuo e in varie forme nella riflessione intorno alla musica, dell’essenza extramondana del suono. Il suono si presta sempre ad una sopravvalutazione metafisica. E ciò non accade soltanto per un arbitrio dell’immaginazione che non può trovare alcuna giustificazione nella fenomenologia dei dati esperiti. Si potrebbe invece sostenere che la percezione stessa suggerisce il pensiero che il suono potrebbe esserci anche se il mondo non ci fosse: nel suo modo di manifestarsi vi è qualcosa che rimanda a questa negazione latente.
Annotazione:
Che la musica sia «del tutto indipendente dal mondo fenomenico» e che essa potrebbe dunque «in certo modo continuare ad esistere anche quando il mondo non ci fosse: cosa che non si può dire delle altre arti» è opinione espressa da Schopenhauer, motivata naturalmente nel quadro e in coerenza con quell’«unico pensiero» che sta alla base del Mondo come volontà e rappresentazione (cfr. Mursia, Milano 1985, par. 52, p. 299).

Da “I suoni senza mondo”, in  Filosofia della musica di Giovanni Piana (Guerini e Associati, 1991)

L’intero volume in versione digitale è consultabile al link: http://www.filosofia.unimi.it/piana/index.php/component/docman/doc_download/31-giovanni-piana-filosofia-della-musica

This opera by Giovanni Piana and Università degli Studi di Milano is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.