“Parla da lungi, o mondo misterioso che ti unisci così volentieri a me…” (Novalis) /Filosofia dell’interpretazione musicale

…Immaginiamo dunque un viaggiatore fantastico“, come direbbe Fogazzaro, su una locomotiva che si inerpica per improbabili paesaggi notturni, sbuffando, “tutto un tumulto di polsi viventi“; egli è munito solo di una immensa e guidata libertà di scoprire, e annegare, e scivolare nelle forre del pensiero e infine sorvolarne le merlature, dall’alto. Immaginando, si precisa dinanzi ai nostri occhi chiusi la figura di un pianista: somiglia al giovane Dinu Lipatti. È  lui. Dove siamo? e quando? Per un prodigio spazio-temporale siamo contemporanei a qualche cosa che è anteriore, e di molto, ai nostri giorni. Non ci facciamo troppe domande e, immaginando, osserviamo. 

Lui pensa, favorito dal ritmico oscillare delle carrozze, con il lieve, immancabile, seducente, religioso, incredibilmente aperto sorriso sul volto luminoso e pudico. Mani intrecciate, musica in mente e nel cuore. È un uomo intelligentissimo, incline alla speculazione e alla creatività. “Pensiero è sempre pensiero d’Altro“, dice a se stesso: e sa di pronunciare una sentenza aperta e complessa, che si dice in molti modi. Sa che cosa significa sentirsi chiamato a scrivere musica. Ora pensa al Suo Bach, che gli appartiene in modo sincero, come accade solo a un musicista completo, capace anche di stare dall’altra parte della barricata, e comporre, oltre che eseguire, sentendo vibrare, sulla propria pelle, le necessità, le correnti e le possibilità della Storia. Deve eseguirlo di sera, quel Bach: non solo lo ripassa, mentalmente e tattilmente, ma ne ammira e rimira, stupefatto, di uno stupore rinnovato ogni volta, l’ordito complesso, che Busoni ha rivisitato in chiave visionaria e scapigliata, e che lui, Dinu, si impegna a rendere in modo misurato, eroico e appena allusivo, completamente interno a quel sogno della classicità che lo abita. Una classicità leopardiana, chopiniana: simile a un calice che contiene, in solida forma, tutti i segreti, le pieghe, le nostalgie, i vissuti del Romanticismo da poco tramontato. Una classicità postuma, che si apre già a molto altro. Da concertista, egli sa che deve fare, disfare, rifare la sua tela ad ogni recital: ciò lo angoscia, ma non solo e non precisamente. La sua ansia è accompagnata da qualche cosa di indicibile: è innamorato. Sempre stato. Di chi? L’Amore lo abita; ama Madeleine, cui dedica le esecuzioni e gli slanci (è un razionale, ma ha un cuore grandissimo); ama la Musica, la Madre, le sue Insegnanti, i Compositori e i Medici che hanno cura del suo male: è ottimista, crede nella vita, ha un coraggio da leone. Proprio perché sa cosa sia la paura. E il tempo che limita, la malattia che incalza e impone conclusioni strette, lasciti improrogabili, senza concessioni a impossibili perdite di tempo. Tempo. Il suo enigma, la sua heresis, la sua scelta, la sua eredità.

Ho tentato di condensare, in qualche riga, ciò che sarebbe stato difficile e prolisso elencare, e che purtuttavia costituisce il pane della nostre prossime chiacchierate.

Ereditare una tradizione, porsi in ascolto dell’Altro decifrando e comprendendo meglio se stessi; esprimersi e tuttavia amare ciò che ci trascende e a noi si impone come precipuamente degno – più di noi, eppure attraverso noi – di attenzione ed espressione. Ancora: dare un senso alla Storia, senza inorgoglirsene; indagare il passato (alla luce di quali mistiche lampade? all’ombra di quali parvenze di scientificità razionale? sotto l’egida di quale Tradizione?) e tuttavia proiettarsi in un futuro condiviso appunto nella sua futuribilità, nella sua dimensione di speranza, riscatto, profezia: intendere, insomma, perfettamente il linguaggio del Vogel als Prophet, e tuttavia non potere che copiare imperfettamente quel canto, quella vibrazione d’ala che tutto dice. Questo è l’interprete musicale, strana forma, lui stesso, di Sprechender Dichter. In ultimo, l’enigma della contemporaneità: a chi l’interprete è o si fa contemporaneo? E con quali diritti? e la sua vocazione a seminare messaggi, così, in quell’ora fatale dalla quale emergono poi, a luci spente, l’uomo e la donna comuni, ha o avrà la possibilità di propiziare, politicamente, un futuro diverso?

Friedrich Schleiermacher è stato il primo a sganciare l’ermeneutica dal solo campo della traduzione applicata a testi classici o biblici, introducendone l’andamento inquieto e plastico – che disobbedisce alle proprie stesse regole e le contraddice – nel cuore stesso della filosofia: questa, d’altra parte, è interpretazione e apertura d’essere, autointerpretazione, esecuzione, resa condivisa.

Schleiermacher ragiona da kantiano di fine Settecento già aperto alla ricezione dei primi effluvi romantici (i più radicali): eppure su tale base sviluppa, sorprendentemente, una messe di problematiche ancora attuali per l’interprete musicale.

L’interprete, il traduttore – come lui lo chiama – appare trainato come da due cavalli che puntano verso direzioni incomponibili. La prima è tecnico-psicologica; la seconda grammaticale ovvero filologica. 

La prima direzione interpretativa – forse la più importante e imprescindibile vocazione del vero interprete – consiste, secondo Schleiermacher, né più né meno che nella medianica, romantica e irrazionale disposizione a trasferirsi entro la psiche di un altro; interpretare è gettarsi entro le sorgenti calde di quell’Altra personalità soggettiva perdendo o ponendo da parte, momentaneamente, la propria. Si rivive così un vissuto: il momento stesso della creazione, la temperie, l’emozione, l’ambiente del soggetto creatore sono dentro il soggetto interpretante – e in un certo senso viceversa. Interpretazione è dunque ricreazione basata sul principio romantico della congenialità. 

Vale la pena di soffermarci un momento sulla radicalità esistenzialistica di tale posizione che sarà chiosata da Robert Schumann: “Solo un genio, forse, può comprendere totalmente un altro genio“; e: “Hai compreso davvero un Compositore quando, di fronte a una sua opera a te sconosciuta, sei in grado di anticipare, prima ancora di voltare pagina, quel che vorrà dire tra un attimo“. E badiamo bene: qui Schumann non si riferisce a fatti formali, o a sviluppi implicati nel materiale già esposto: ma a scelte soggettive e in certo senso umorali e legate a quel presente emotivo che il lettore (Lui!), anch’egli geniale, intuisce, condivide, rivive anzi anticipa, e sente con il compositore. Schumann parla qui da esponente di punta della Romantik, e mostra d’esser dentro, completamente, al primo corno dell’ermeneutica schleiermacheriana. 

Esiste una conseguenza curiosa di questa specifica posizione ermeneutica, messa giustamente in rilievo da Dilthey: “L’aspirazione più alta di un interprete? E’ comprendere l’Autore meglio e più di quanto non abbia fatto lui stesso“. 

Si tratta di un assioma problematico, poco più tardi confutato, anzi rettificato, come vedremo, da Hans-Georg Gadamer. 

Ma perché Dilthey lo pronuncia così convintamente? E perché ne abbiamo visto traccia persino in Arrau, cultore della più religiosa determinazione all’aderenza al testo?

Vi abbiamo già accennato la scorsa puntata: solo l’interprete gode di quella panoramica completa – possibile solo ad opus conclusum (ovvero a parabola esistenziale terminata) – che manca a chi ancora sta vivendo, e che non ha chiaro il telos postumo della sua vita e della sua morte, né l’enigma del suo stesso destino nella Storia, né, ancora, il posto di quel suo capolavoro tra altri, passati, presenti e a venire. E’ l’interprete che scruta, in certo senso diventa, e comunque esprime e perpetua e muta e compie l’Autore, e ciò in senso molto largo ed eminentemente reale. Noi aggiungeremmo oggi, proprio sulla scorta di Gadamer, che il dialogo con l’Autore avviene e continua nell’arco plurisecolare di una storia degli effetti che nutre se stessa anche di interpretazioni di interpretazioni.  

Ma per tornare al geniale Schleiermacher, che non ha finito di sorprenderci: compito dell’interprete – e ciò è paradossale ma stimolante – non è, secondo questo Schleiermacher, aderire a ciò che è scritto: non è tra-durre nel senso di ri-portare, rispecchiare, parola per parola, pedibus, ciò che il testo originale prescrive o è: non è rifarlo in altra lingua salvandone innanzi tutto l’aderenza all’oggetto-testo. È il contrario: è renderne l’idea anche a discapito dell’aderenza al testo, purché ne traluca lo spirito, che è avanti e oltre la lettera. Audace, da parte di un filologo attento come Schleiermacher. Dunque all’interprete – al traduttore – è concesso manipolare il testo sino, nientemeno, a volgere in prosa ciò che in altra lingua è in poesia (o viceversa); gli è consentito di parafrasare, trascrivere, aggiungere, volgere e persino stravolgere (sia pure cum grano salis), se ciò è funzionale a restituirne l’anima.

Come non pensare a Liszt! 

E alle sue Parafrasi su Wagner, Verdi, Schubert: opere tese verso l’attualizzazione di un racconto altrimenti detto, condiviso su piani diversi dall’originale! – Ma esiste un originale? Ecco una domanda ermeneutica-chiave, cui si potrà tentare di rispondere (ma sempre con una rosa amplissima di possibili problematizzazioni, senza risposte univoche) nel corso della prossima puntata -. Il Liszt interpretato da Cziffra, lo Chopin variato di Teresa Carreño, e persino, pare, il Brahms di Clara Wieck: non vivevano, non vivono, quelle esecuzioni, di una vita geniale loro infusa dall’istinto comunicativo dell’interprete, da quel ponte che restituisce alla platea non già pagine immutabili, ma vita, improvvisazione, capacità d’adattamento a pubblici, acustiche, sale, contesti?

Ecco una Sesta Rapsodia di Liszt suonata da György Cziffra: egli si sente perfettamente legittimato (è ungherese; appartiene a famiglia di circensi) a concepire il suo numero – in omaggio a Liszt e alla sua tradizione, non contro – come rifacimento, arricchimento, improvvisazione, abbellimento virtuoso di interi episodi, molto oltre ciò che è scritto… in uno slancio trapezistico e senza rete.

George Cziffra – Liszt Hungarian Rhapsody No.6….

E confrontiamo il tutto con altro, nobilissimo Liszt: il Liszt di Michele Campanella, che invece ne celebra (lo stesso pezzo!) l’alto lignaggio, la classe, la compostezza, la leggibilità bravuristica e insieme ascetica: qui è un Liszt mediato da un intelletto latino, anzi italiano: la visione è razionale, meridionale, sprezzante del pericolo e in certo senso “fredda”: è in questo distacco che, pare dirci Campanella, si compie l’alchemica trasformazione del Bagatto nel Mago Liszt, nel Compositore per eccellenza motore della storia, in tutta gravità e ampiezza di intenti. 

https://www.youtube.com/watch?v=vq3B4upv7Sg

Torniamo alla nostra filosofia: che però, bisogna davvero ammetterlo, è qui fortemente intrecciata con la nostra questione della interpretazione musicale. 

Con la sua mossa incredibilmente idealistica ante litteram Schleiermacher, dicevamo, sorprende davvero: in quest’ottica l’idea, ovvero per noi la musica, è “behind the notes – come diceva Horowitz – not under them”: non si può schiacciare la musica su presunti parametri esecutivi che limitino troppo la discrezionalità dell’interprete. 

Oseremmo dichiarare che la piega Romantik del pensiero ermeneutico schleiermacheriano è compresa, più immediatamente che dai filosofi puri, proprio dagli interpreti musicali.

Non precisamente né necessariamente nel senso dello stravolgimento del testo scritto: ma nel senso dell’idea che traluce e traina quale grande motore dell’interpretazione; che unisce, dà senso e dinamica, costituendo il quid indicibile di ciò che viene comunicato – e che prevale su tutto, travolgendo persino la necessità o il mito della precisione tecnica: così è nel Beethoven di Arthur Schnabel, e, di certo, in alcune esecuzioni entusiasmanti e giovanili di Artur Rubinstein. 

Questione filosofica è appunto quella dell’idea in rapporto alle note, e passibile di sviluppi ulteriori. 

Ma questione forse ancora più interessante è la vocazione proteiforme dell’interprete, assolutamente intuita e, come dire, ipostatizzata da Schleiermacher.

Un mirabile esempio. Il “candido Gieseking”! Egli è tale, certamente, quando suona Mozart (quale ricamo angelico, le sue interpretazioni! Egli coglie, del Salisburghese, l’aspetto fanciullesco e innocente, e il gioco perlato, in prossimità del divino); o quando “stampa” pittoricamente il Debussy più sospeso e impressionista; ma ecco che lo stesso interprete muta d’aspetto quando interpreta Schumann. E quale terribile mutamento! Quale fascino, le sue esecuzioni! Quale hoffmanniano personaggio è ora, tra le mani di Gieseking, Kreisler, il musicista folle! Disposto, come Schumann e come il suo tragico Doppio Nathanael, a smarrire il senno, si fa travolgere da cerchi di fuoco sempre più terribili, schneller und schneller  – a velocità assurde, sul piano della realtà e della prescrizione agogica, soprattutto se gli inizi recano scritto già: Il più presto possibile, come accade nel Quarto movimento della Terza Sonata e in molti altri luoghi schumanniani. 

Walter Gieseking rende tutto questo. 

Ascoltare anche solo il primo dei Kreisleriana è scioccante: si direbbe che Gieseking stesso – nel momento dell’esecuzione dal vivo, in quella situazione di contingenza radicale e di estrema tensione dell’anima – divenga e si consegni a quella pericolosa tendenza alla più geniale, vorticosa, presaga, estranea, solitaria e disperata follia romantica, purtuttavia desiderosa d’essere comunicata, condivisa, espansa nel suo afflato impossibile!

Walter Gieseking plays Schumann, Kreisleriana – Phantasien für das Pianoforte op. 16

Che importa del rischio, delle note sporche, di ciò che è confuso – sembra dirci questa interpretazione: deve esserlo! E’ confusione divina, lessinghiana, dinamizzata dall’interpretazione musicale; qui, giustamente, la velocità e soprattutto l’accelerazione cambia di segno a ogni cosa, tutto si fonde, ci si avvicina pericolosamente alla Luce…

E, sempre nello Schumann interpretato da Gieseking, che dire dei buchi neri (l’espressione geniale è di Guido Salvetti), e dei gonfiamenti del basso?  – davvero il pianoforte può “crescere” dopo aver suonato una nota? sì, Gieseking ne è capace, con il suo solo Schumann. E la poesia nostalgica, i canti di natale, le foreste ora accoglienti ora abitate da fiori solitari e scavate da valli irredente e maledette, che paiono attendere d’essere liberate da secolari incantesimi… è forse l’interpretazione, che libera e affranca, che rende giustizia, che ancora ci parla da lungi? Ancora: il capriccio e la fenomenologia fantastica, il racconto fiabesco e l’incubo notturno; e, infine, ineguagliato, l’intreccio amoroso, commovente, schubertiano, dell’Ultimo Tempo della Fantasia…

E non vogliamo lasciare questa prima, lunga, suggestiva sponda schleiermacheriana, così feconda, così ricca di riferimenti extra moenia, senza evocare il singolare racconto di Borges, “Pierre Menard, autore del ‘Chisciotte’ “, che ne adombra e ne fa assaggiare, a noi lettori incuriositi e stupefatti, gli aspetti più paradossali. Il discorso è qui preso da un’angolazione diversa. Ecco la trama, in estrema sintesi: uno scrittore, Pierre Menard, vuole, nel 1918, comporre il Don Chisciotte di Cervantes: non un altro, ma l’originale. Ovvero: non desidera copiarlo, ma idearlo e scriverlo, così come nacque dalla penna di Cervantes. Si industria allora a rendersi contemporaneo a Cervantes sino a prenderne il posto: si circonda dei medesimi stimoli, della stessa lingua, dello stesso ambiente in modo da esser determinato a comporre, nel medesimo modo, le stesse cose, con identiche parole, immagini, metriche… Riesce, infine, nell’incredibile impresa, sia pure relativamente a qualche pagina (nel racconto si sostiene che, se avesse avuto a disposizione un tempo infinito, lo avrebbe scritto, probabilmente, tutto). Ma – e qui siamo costretti a riassumere il genio di Borges: ecco che una stessa frase, con le identiche parole, nel Seicento suona come sperimentale, caotica, scritta à la diable; dopo trecento anni, rifatta da un anglo-francese, sia pure nello spagnolo di Cervantes, è irrimediabilmente diversa: allude ad altro, evoca altri mondi; si rivolge ad altri fantasmi, presagisce e sottilizza e ironizza su altri piani. 

Grande problema, questo, che gli interpreti musicali conoscono benissimo: come, appunto, ricreare un contesto per noi valido? Un solo esempio, e autorevolissimo: come suona, dice Piero Rattalino, il primo accordo della prima Sonata di Weber ai contemporanei di Weber? Rivoluzionario, scioccante: una settima diminuita in fortissimo, che squarcia l’aria e fa presagire un’alta, germanica tragicità; l’inusitata armonia, certo non comune ad un inizio d’opera, inquieta: è tutt’altro che affermativa, in certo senso indefinita, urgente…che accadrà dopo?

E l’interprete di oggi, come si trova a confronto con quell’accordo e con l’arpeggio discendente che ne segue, e con lo sviluppo tutto? E il suo pubblico, che ne pensa? E’ in grado di rivivere quello shock, dopo Wagner, Schoenberg, Skrjabin, Boulez? 

Più radicalmente: interpretare significa ricreare contesti oppure portare, per così dire, il passato all’altezza dei nostri giorni, farsi storia, accettarne il fardello – e soprattutto comunicarne o propiziarne gli effetti? 

Questo sarà l’argomento d’apertura della prossima nostra puntata. 

Prima di chiudere questa, però, dobbiamo almeno accennare al secondo approccio schleiermacheriano alla traduzione-interpretazione: il côté “grammaticale” dell’interpretazione, per Schleiermacher necessario, ma filosoficamente incomponibile con il precedente, malgrado le numerose contaminazioni reciproche. 

Anche questo è per noi degno d’interesse: si consideri ora l’interpretandum quale oggetto-testo, come una espressione di una koiné culturale molto più vasta. Il “pezzo” è, per così dire, filo d’erba tra molti altri fili d’erba del medesimo prato, fatto a propria volta di segmenti filologicamente comparabili con altri (non solo di questo autore). Emerge qui il filologo, il linguista Schleiermacher: per il quale diventa essenziale tradurre e interpretare anche maneggiando e conoscendo lo spirito di una lingua nei suoi mattoni costitutivi, in omaggio a una scienza in qualche modo supremamente oggettiva.

Il lascito di Schleiermacher sarà raccolto, assai problematicamente, da Wilhelm Dilthey, che assumerà il compito di distinguere il metodo d’approccio alle scienze dello spirito – di cui la Storia è la summa e il primum: è qui che l’uomo incontra e conosce l’Uomo – dalle altre, descrittive, legate alla natura. Erlebnis è una delle parole-chiave di Dilthey: il vissuto. Soggettivo e contemporaneamente oggettivo, il concetto di Erlebnis consente tuffo e mimesis non solo nell’altra soggettività da conoscere, ma anche nelle oggettivazioni che questa lascia, a mo’ di tracce e reperti, a farsi conoscere nel tempo, oltre la vita biologica. L’altro è dunque enigma e contemporaneamente oggetto di attenta filologia: indagabile attraverso i suoi Erlebte, ovvero i documenti e le opere, e le parti, i frammenti di vita orientata, le strutture di cui queste sono costituite. 

Possiamo notare di passaggio quanto Arrau sintetizzi con naturalezza le due dimensioni ermeneutiche or ora esposte? Proprio quelle che la Filosofia pura trovò sempre assai difficile armonizzare e comporre, per il semplice fatto che la prima valorizza il soggetto (l’autore e il suo interprete) a discapito dell’oggetto e la seconda l’oggetto-testo a discapito del soggetto?  

Con l’insegnamento filologico di Krause (rimando alla puntata precedente), e con l’irruzione di correnti soggettive sempre più marcate nel processo interpretativo lungo tutta la sua esistenza, ecco che Claudio Arrau, sul piano della prassi artistica e umana – non su quello puramente speculativo – trova ed è la sintesi. 

Altri, dopo Arrau, si muovono nella medesima direzione: Alexander Lonquich, per fare un solo autorevolissimo esempio, tra i pianisti. 

Lonquich è conoscitore formidabile di un repertorio incredibilmente ampio, non solo pianistico, che tratta, se ci è concesso dirlo, proprio alla maniera di Arrau: qui la capacità comparativa data dalla geniale prerogativa di ritenere il tutto, di rinnovarne e sperimentarne collegamenti, si sposa con l’espressività personale, con la cultura e la memoria immense, con la proiezione nel futuro, con addentellati speculativi che agganciano l’arte tutta e alludono alla forma della Mente, con idee filosofiche e politiche interessantissime e creative. Non parliamo certo di schieramenti politici: ma di quel senso dell’uomo e del vivere assieme che, ci auguriamo, affiorerà tra le pieghe della nostra prossima puntata.