Magia, musica e fantasmi – I tre libri di Hélène Grimaud (prima parte) | Filosofia dell’interpretazione musicale

Un’artista neoromantica
Pianista estremamente dotata e di grande successo, donna interessante dall’alta figura efebico-angelica, Hélène Grimaud è molto amata oppure guardata con sospetto.

La spinta verso gli estremi fa parte, in verità, della sua stessa natura di donna e di artista: e donna e artista non sono mai separabili in lei. Tale tratto è contemporaneamente, c’è da ritenere, tanto una tendenza naturale quanto una scelta consapevole.

Per saggiarne l’importanza, e in via del tutto preliminare, chiamerei in causa il doppio ritratto di attrice offerto da Denis Diderot nel Paradosso sull’attore.

Qui Diderot descrive due figure di attrici teatrali famose ai suoi tempi e così fondamentalmente diverse tra loro da costituire altrettanti tipi; la diversità consiste nel tasso di stabilità in occasione della resa pubblica, per via di un differente rapporto tra performance teatrale da un lato e vita personale dall’altro. La prima attrice sa ergere una diga tra vita e arte: diga che impedisce il fluire della vita cangiante nella performance di questa sera e nella ripetitività metodica del lavoro quotidiano; l’altra no. E mentre la prima è stabile, e domina la parte ogni sera con maggiore maestria, approfondendo il solco tra se stessa e il personaggio (di replica in replica diventa “così padrona del testo che potrebbe viaggiarvi a ritroso, entrando e uscendo dalla parte quando vuole”) la seconda è completamente immersa nei propri umori. Questi umori tingono il personaggio di fuochi o tenebre sempre differenti a ogni rappresentazione, con una forte dose di imprevedibilità nella resa. Tratti di mediocrità sciatta si alternano a sprazzi di celeste dionisiaca ispirazione; e quando l’ispirazione c’è, è accompagnata ora da un tactus melanconico e lento ora da un’esuberanza già romantica. Ella è spontanea, per così dire, e meno professionale della prima, perché accoglie la vita dentro la performance, con tutti i rischi e i voli che ciò comporta. Solo nella seconda attrice accade che, quando personaggio e Frauenliebe und Leben coincidono, o si lambiscono in modo da fare scoccare una scintilla, si attinga al sublime, e che tale momento sia irreplicabile.

Ecco, Hélène Grimaud appartiene al secondo tipo di artista. E’ dunque una neoromantica, e in più sensi: ha vocazioni e campi d’azione vastissimi – per esempio, scrive libri, non di bassa lega; sposa stili alternativi di vita; si impegna nel settore ecologico e umanitario; coltiva intensi e non comuni interessi culturali; è patronessa di molte fondazioni a favore del lupo, e ne concepisce la vita in simbiosi con la propria… il tutto con un atteggiamento di fondo radicalmente esistenzialista e una certa disponibilità a comunicarne gli esiti.

Si comprende come e perché sia stata definita falsa, new age, furba; eppure dietro quello sguardo acceso di acqua, stranamente ferino e insieme dolcissimo, dietro quei toni cortesi e agitati, sta certo un’interprete amplissima, brava, vera, di grande fascino. Il suo ego è immenso, ma lo è anche il suo amore per gli Autori che interpreta, nei confronti dei quali è senza pelle, consegnata al vissuto e al magico e all’imponderabile. In quanto artista, lei può salvare un mondo irredento, e un passato indecifrato che attende di essere liberato da malefiche pietrificazioni. L’Artista Hélène Grimaud è una medium e in molti sensi.

Tre libri, sinora. Variazioni selvagge.
Dunque è con queste premesse che ci si deve accostare alla lettura dei libri di Hélène Grimaud. Sono tre: Variazioni Selvagge, Lezioni private, Ritorno a Salem. Libri che non ci aspetteremmo da una pianista: diaristici, metaforici, da decifrare assaporare e vivere, sono testi autobiografici e però capaci di alludere a molto altro; scritti con una certa maestria letteraria, sono assai diversi tra loro, tranne che per l’occasione di scrittura: questa è la crisi, sempre.

In Variazioni selvagge è meno evidente, ma già tutta questa opera prima in realtà marcia verso una revisione completa della vita, verso un bisogno di rinascita e ricollocazione.

Il suo tratto più notevole è la forma: questa procede a mo’ di discanto: mentre racconta interi tratti della sua vita, Hélène passa, in modo apparentemente incongruo, a parlare di lupi, della bellezza indomata dei nobili animali, di leggende che li riguardano; di statistiche; poi riprende il racconto, seguito da altre, successive interruzioni. Si ha l’impressione che le due voci siano unite da qualche logica che ci sfugge.

La soluzione del piccolo mistero sta alla fine del libro, quando le due strade parallele si incontrano nella vita e nella vocazione di Hélène: lascerà l’Europa per gli Stati Uniti; si trasferirà a Salem, nel Massachusetts, dove, con l’aiuto di fondazioni etiche, creerà un Centro per la protezione del lupo, e lì andrà ad abitare lei stessa. A Salem, nel ranch, dove gli animali vivono così liberi da riprodursi, ella imita gli ululati e la vita e le corse del lupo, suo animale totem, finalmente liberata da quel senso di eccesso di energia compressa che non trovava sfogo. https://www.youtube.com/watch?v=uE2P2nitE48.

Così Grimaud cambia la sua arte, i tempi delle sue interpretazioni. Ella dà la stura all’angoscia, all’ansia, allo slancio, canalizzandone il potenziale creativo. Perfeziona e precisa la mira delle sue interpretazioni che vive in modo totale: esprime il sovrappiù emotivo secondo nuove forme di propria, rinnovata ricettività. https://www.youtube.com/watch?v=4VOuFOzRKQM

Crisi: Lessons particulières.
Il secondo libro, il cui titolo si dovrebbe rendere con lezioni indimenticabili (anziché “private”), pubblicato anni dopo l’uscita del primo, è il frutto di una crisi esistenziale e artistica di cui Hélène, già in carriera, prende consapevolezza improvvisamente, una notte d’ansia: affacciatasi alla finestra, realizza che ha bisogno di partire, e di nutrire i suoi sensi affamati di esperienze nuove, in cerca di senso. E’ questo ciò che ha perso: l’ispirazione, il motore, lo slancio: è esaurita.

E’ molto difficile che un’artista confessi di essere in crisi. Invece ecco qua: Hélène stacca tutto, da un giorno all’altro, da un momento all’altro; fa le valigie e lascia che il caso decida della destinazione del viaggio iniziatico. Solo il movimento del lasciare e dell’inoltrarsi nell’ignoto potrà, difatti, fornirle la chiave dell’enigma: il problema della sua crisi non è solitario, ma esistenziale in senso lato, perciò da condividere, e cosmico.

Fantasmi amici
Ora Hélène è in una stazione di servizio tra Roma e Assisi, dove vuole recarsi in prima istanza; qui l’incontro fortuito con il Professore, un gentiluomo francese avanti negli anni che la colpisce per la “straordinaria somiglianza con Pierre Barbizet“, suo amato maestro defunto da tempo, dice quasi subito della natura fantasmatica del personaggio.

Sì, il Professore ha la macchina in panne e non sa come raggiungere Assisi dove è atteso a casa di amici quella sera stessa, improrogabilmente. Ed Hélène gli offre un passaggio. I due ingaggiano una conversazione piacevolissima, parlando di alti fini dell’educazione, di idealità del fare e del sentire. Il tutto è impreziosito dal gusto retrò e galante del Professore, amabilissimo interlocutore e saggio didatta ora in pensione.

Ma la sparizione della immagine riflessa dallo specchietto retrovisore al momento del congedo, e le successive epifanie in forma di lasciti e messaggi, mostrano che il Professore è dalla parte dei mai estinti, dei buoni spettri protettori. Di più: egli è il deus ex machina dell’intero percorso; è a conoscenza della genesi, della portata artistica e umana e della soluzione della crisi di Hélène, cui suggerisce molte cose. Dove? In una articolata missiva che raggiunge la giovane l’indomani, presso il monastero francese delle Clarisse, dove la pianista ha trovato avventuroso alloggio.
Il primo suggerimento contiene un programma estetico: “Cosa direbbe, Signorina, di farsi medium non già della sola musica, ma dell’intera vita? – proposta tutta da decifrare e comprendere, e da far propria da parte di Hélène: la quale però sente che è qui la meta del viaggio (ma a noi sarà chiara la meta? o resta volutamente occulta, e la sua stessa natura è indefinita e infinita?).
Il secondo: la destinazione finale, legata al piccolo dono che il Professore fa pervenire in regalo a Hélène assieme alla lettera: un carillon con musica di Froberger. Strano regalo, la cui natura sembra essere quella di circolare, di passare di mano in mano: “…solo se Lei riterrà opportuno, Signorina, e ne riterrà degno il destinatario, lo porterà a…. ad Amburgo, presso il tale indirizzo, e lo darà a chi le aprirà la porta“.

Da quanto tempo – ci si chiederà alla fine del libro – l’oggetto funge da Scibboleth, da lasciapassare, testimone e varco, da specchio rivelatore, da cassettina miracolosa…?

E la casa in cui Hélène ha depositato il Professore la sera dell’arrivo in Assisi, ove l’uomo era “atteso da amici carissimi“: anche questa, come il Professore, è una casa fantasma. Sembra vivere in due dimensioni differenti e compresenti del tempo (nel tempo di chi? Della sola Hélène, punto intersettivo di presente, passato e futuro). La giovane è sicurissima, difatti, che il giorno prima, quando lei e l’anziano signore si erano salutati, la casa avesse un aspetto quasi nuovo e accogliente (“violaciocche e gerani…colori rosa e verdechiaro, uccelletti…cancello spalancato…pittura fresca“). Ora che l’ha ritrovata – senza riuscirvi a primo colpo, e dopo un lungo giro mistico in cui “si è persa”, e da cui è emersa dopo un ipnotico incontro con gli affreschi di Giotto – ora appunto, ha tutta l’impressione che sia disabitata da molto tempo, e che tuttavia conservi il ricordo familiare di serenità e gioia domestica…

Ora, leggendo, siamo sempre più avvolti dalla certezza che Hélène non sia nuova a simili esperienze e che se ne lasci trapassare con naturalezza sovrarazionale.

Due racconti-flashback, interni al libro, lo confermano.

Il primo è relativo a uno strano incontro notturno occorso anni prima con un giovane vestito in modo eccentrico, stavolta “incredibilmente somigliante all’amico Denis, morto qualche tempo prima“.
All’uscita da una lunga seduta di prove solitarie presso la sede di casa Steinway, ad Amburgo, Hélène, accesa da un “lungo colloquio con l’opera 35 di Chopin, studio della bellezza della Morte“, aveva fatto le tre di notte. Aveva chiesto, in effetti, uno speciale permesso di permanenza oltre la chiusura ufficiale in quel Museo della Musica di cui era certo l’unica inquilina, a quell’ora deserta e improbabile. Le era stato raccomandato, quando avesse finito, di poggiare la chiave sul tavolo della reception, all’entrata, e di chiamare, da sola, un taxi, chiudendo la pesante porta dell’edificio dietro di sé. Una volta in strada, le era venuto incontro questo angelo protettore che – causa un inspiegabile ritardo del taxi – l’aveva gentilmente scortata sino all’albergo, a piedi, parlando di musica e lodando la sua interpretazione, in Sala Steinway, dell’opera 35: sì, lui era dentro l’edificio, era con lei, l’aveva vista e sentita.
Ma dov’era? E da dove e come sarebbe uscito?
Il giovane la saluta: “A presto. Torni a trovarmi. La notte è la mia ora“.
L’indomani, dopo un’indagine presso i responsabili degli uffici, Hélène realizza l’improbabilità di quella presenza sul piano della realtà: soprattutto quando nota gli sguardi scettici, ora sbalorditi ora canzonatori, di fronte alla descrizione dell’uomo e del resoconto dei fatti: “....Smisi di chiedere“.
Sempre, è la musica ad aprire all’Esperienza; e lei, Hélène, come interprete, a recepirne le dimensioni plurime: dimensioni ove presente, passato e futuro convivono in un unico panorama.
Assurdo e mistero in tutto, saremmo portati a dire, se non: ciarlatanerie, invenzioni!
Eppure…
Nel secondo episodio Hélène è protagonista di qualche cosa che non era mai accaduta: l’aggressione da parte di una lupa, e, poco prima, del presentimento del fatto, che si palesa in una visione allo specchio. Il motivo sta però in qualche cosa che viene solo accennato, e che è compito del lettore esplicitare: la natura crudele della padrona del ranch presso cui la pianista si trovava in visita, richiesta di un intervento per un documentario sui lupi. Lei, Hélène, ne indossava la camicia bianchissima (prestata dalla donna per esigenze televisive).
In bagno, cambiandosi d’abito e rinfrescandosi il viso, guardatasi allo specchio, aveva visto la propria immagine riflessa, per un attimo, come macchiata di sangue: il rosso liquido scendeva giù per la camicia creando uno strano effetto di sdoppiamento. Pochi minuti dopo la lupa, sentito l’odore del male su di lei una volta entrata nel recinto, assume la tipica posizione d’attacco e le morde un orecchio. Questo sanguina molto anche se la ferita è lieve.
Cosa vuole dire questa scena? Molte cose.

L’artista, come l’animale, prende e coglie tutto, anche la malvagità degli uomini, anche se se ne lascia attraversare come da una miriade di neutrini, senza contaminarsi.

Una Beatrice…
Tra tutti i personaggi incontrati nel viaggio solo le donne, per Hélène, hanno nome proprio; gli uomini sono ruoli: il Professore, lo Sconosciuto, il Collezionista…tranne uno, l’ultimo, di cui diremo a parte.

Di estrema pregnanza è l’incontro con una Beatrice.

Ragazza di circa venti anni, con un viso da elfo e un ciuffo birichino sulla fronte, Beatrice è francese. Anche lei, come Hélène, in piena crisi artistica (è scrittrice), è venuta ad Assisi, offrendosi alle monache come giardiniera volontaria, al preciso scopo di riguadagnare l’ispirazione che in città le manca; è dunque regina di quel kepos che è l’hortus conclusus del Monastero. E’ Beatrice a svelare a Hélène, cui offre un pomodoro e un melograno, che il luogo è denso di vita: ecco il piccolo pozzo al centro, segno di tempi stratificati e sempre vivi; ecco gli infiniti mondi leibniziani racchiusi in una sola foglia: qui ogni porzione di foglia comprende l’intero giardino, con acque e pesci e piante; e in scala sempre più ridotta, in ogni foglia un giardino, in un anassagoreo concentrarsi e coimplicarsi della Natura, nel più fervido brulicare di mondi, in quell’infinitamente piccolo di cui siamo fatti.
Il giardino del monastero è in sé l’infinito contenuto nel finito: è il mistero della Concezione, della fecondità femminile: non ne è il simbolo, ma la vivente realtà.
Beatrice è per Hélène uno spirito guida, senza dubbio.
Beatrice, ha qualcosa di magico, ed Hélène non lo nasconde: la giovane “va e viene passando attraverso una porticina nota a lei sola“: evidentemente frequenta mondi diversi; ha dimestichezza con dimensioni, soglie, varchi, aperture.
E’ un mondo segnato di femminilità, questo: la suora che apre il cancello “ha il viso simile ad una mela“, e il chiostro “ha un suo proprio cielo“, suoi profumi e aromi, un suo tempo.

Hélène e Beatrice parlano di Sirene del Lago, di canto, di Ninfe, da troppo tempo ammutolite: quale artista, quale novello Orfeo sarà capace, con la musica, di restituire i luoghi al divino che li abita?
Viene adombrato un grande principio dell’interpretazione: tra artisti ci si intercetta, si fiorisce a distanza: ci si comporta come fa l’iris, il fiore-spada dagli occhi viola che ha radici immensamente estese, capaci di correre per chilometri: lo stesso fiore spunta anni e anni dopo in luoghi lontani dalla matrice, rampollato dal medesimo rizoma, a esprimere la stessa cosa.
Hélène ricambierà le cortesie ricevute da Beatrice con un dono assai particolare alla fine del libro.
Potremmo dunque dire che la funzione di spirito guida, tra le due donne, è reciproca.

Epilogo del secondo libro: il gemello astrale.
Amburgo deve avere, per Hélène, una magia particolare: il Professore lo sapeva? E’ perciò che ha suggerito questa, come ultima tappa del viaggio?
Certo, a Hélène batte forte il cuore quando suona il campanello di Hans Engelbrecht: questo il nome del giovane amburghese presso il quale la ha indirizzata il Professore.
Un vago presagio la rende inquieta: il sentimento si precisa quando il giovane, aperta la porta, è così somigliante a Hélène da sembrare il suo gemello.
E qualche destino simbiotico avvolge i due giovani – che ora si conoscono – in un rapporto di fratellanza a contrario. Una duale figura alchemica: due visi che sgorgano dal medesimo tronco. Due Soli: l’uno luminoso, lei, Hélène; l’altro buio, lui, Hans: avremo notato che il suo cognome rimanda all’idea di Angelo spezzato. Hans è cieco, ma non dalla nascita – Hélène se ne accorge improvvisamente, con un sentimento di orrore misto a pietà. Era un grande violinista, da ragazzo, spinto alla carriera da una madre inflessibile; ed ecco che si getta in un incidente che fatalmente lo libera da ogni possibile fardello di vita pubblica. Sì, ma Hans ha depositato lontano, in un luogo irraggiungibile, anche la musica, la felicità e la luce.

Hélène consegna ad Hans il carillon del Professore – che di nuovo sapeva della somiglianza incredibile tra i due giovani, e dell’effetto shock che la vista di quel Doppelgang avrebbe provocato in Hélène – e va via, dopo un tenero e patetico saluto al ragazzo.

Ha bisogno d’aria, di bianco, di mare, di luce.

Si reca presso il porto nordico di Blankenesee, decisa a riflettere sull’epilogo e la meta inconscia del suo viaggio e sul suo significato: allora?

Allora è una diabolica tentazione quella di abbandonare tutto, di ritirarsi a vita privata.

Questa idea le era balenata a Como, mentre, passeggiando lungo i sentieri pieni di sole e di gente, a un passo dal lago, le era parso un vero delitto non permettersi di afferrare quella vita semplice, pressata com’era sempre dalle esigenze di studio e dai viaggi.

Ma ora sa che non deve farlo: violerebbe le leggi della propria natura, che la spinge invece ad altro.
Così ragionando, e camminando a lunghi passi per le stradine del bianco luogo, fatto di enormi pietre marmoree e di piccoli cortili curati dove la gente converge per far musica spontanea, si accorge che quei musici improvvisati, nel tentativo di non disturbare i passanti, si premurano di chiudere porte e finestre per non invadere la strada di troppi suoni…
…Ecco l’illuminazione! Bisogna invece fare il contrario: aprire le finestre, e provocare alchemici scambi, imprevedibili contaminazioni tra vita e musica.

Musicalizzare ogni evento e, cosa che implica grande coraggio, portare la propria vita nel concerto di questa sera. Ecco la vera rivoluzione che la attende.
Il libro si conclude così, con un programma estetico già consaputo e ora in gestazione.
E’ l’eredità del Professore: Hélène ne accoglierà l’invito a farsi medium dell’intera vita; e non sa quanto le costerà questa decisione nel futuro, quanto la sua ipersensibilità sarà sollecitata, il suo fisico provato da una tale esposizione; ma ignora anche quanta gioia le sarà data in sovrappiù.

Giséle Brelet, John Cage e l’esistenzialismo radicale di Hélène Grimaud.
Che cosa significa convertire ogni esperienza in musica e lasciare scivolare la propria vita nella musica, se non provocare passaggi dalla vita alla musica e viceversa?

Negli anni Settanta l’ultima speculazione della musicologa Gisèle Brelet (l’articolo di riferimento è Musique et Structure) va oltre l’eredità di Bergson: il tempo vissuto non è che la base, ora, di nuove considerazioni legate alla natura del tempo e del suono. La filosofa che aveva rifiutato la sospensione tonale e difeso l’ancoraggio alla tonalità con la motivazione che esso fosse in natura, e che dunque qualsiasi pretesa violazione di quel codice avrebbe reso la musica non comprensibile né compartecipabile, scopre, alla fine dell’esistenza, l’idea di un suono in grado di emancipare la musica dalla storicità degli strumenti e del repertorio e degli stilemi che ognuno di essi evoca; scopre, nel suono, il potere di cancellare la fittizia distinzione tra soggetto e oggetto, sintetizzando, senza mediazioni formali, la musica di cui il cosmo tutto è fatto.
La tarda Brelet scopre un’essenza musicale in ogni evento del mondo.

Tutto è musica.
E, nonostante le aporie qui ravvisabili quasi a ogni passo, Brelet osa andare avanti e affermare che è dall’interprete che dobbiamo attenderci l’atto comunicativo per eccellenza, e dunque un futuro musicale in cui le figure del compositore e dell’interprete stesso siano avvinte da un nuovo tipo di rapporto. E’ l’interprete l’elemento di sintesi coscienziale del processo creativo-ricettivo, e, assieme, la testimonianza vivente della natura cangiante del rapporto, poiché egli stesso è rapporto e vita.
Per l’interprete la musica “si libera delle categorie in cui era imprigionata per acquistare tutta l’ampiezza e la sottigliezza del reale“. In questa visione “in cui vita ed arte coincidono senza residui” – commenta Enrico Fubini – “scompare la distinzione tra soggetto e oggetto: nel rivelarsi del materiale sonoro senza alcuna mediazione formale, il soggetto si fa quasi ricettacolo passivo – ma proprio in questa passività ritroverebbe la sua propria libertà“.
E’ ciò che Hélène adombra in più di un passo, anche se a suo modo, anche se nei fatti e nella forma del romanzo, più che in teorie come tali presentate. Senza dubbio, di nuovo, è una neoromantica.
Ora, balza immediatamente in mente Cage e il suo programmatico abbattimento di ogni barriera tra la musica e il mondo; ma qua e là nei due primi libri e, come si vedrà, moltissimo nel terzo, Grimaud conosce, ammira e talvolta esegue compositori avanguardistici disponibili all’ascolto e alla trascrizione della musica delle foreste – sinfonie di suoni che sono il bosco. Non solo: ella stessa si aprirà, come interprete, a certa contemporaneità (Arvo Paert, per esempio: qui il link del Credo https://www.youtube.com/watch?v=NNmHJGUnu1s) il cui connotato emotivo, esistenziale, cosmico si fonde con una certa semplicità dell’esperienza.

A Hélène importa la ricucitura, l’afflato emotivo con chi la ascolta.
Ecco il tratto new age – o interpretabile come tale – del suo attuale approccio ai concerti. Benché si muova entro un repertorio tradizionale in gran parte, Grimaud rinnova il rito con sfondi boschivi o acquatici  (significativo questo trailer https://www.youtube.com/watch?v=rzn0SRjIcxE), capaci di alludere a quel gran problema dell’uomo e del suo futuro che è l’ecologia, il rapporto armonico dell’uomo e dell’arte con il mondo, con l’anima, col sentire. 

Mezzogiorno
Il libro si conclude con un ultimo capitolo, il numero 11, costituito da una sola frase: Quando mi sono svegliata era mezzogiorno.
Si tratta anche di una citazione rimbaudiana; ma certo la cosa è carica di possibili significati.
E’ l’ora nicciana, del palo senz’ombra, della Verità? E’ l’ora delle cicale-musici di Platone – l’ora detta schedon, divisa, in cui tutto si arresta, tanta è la densità dell’essere?
E’ l’ineffabile zenit dell’ispirazione?
Ma anche: tutto il libro è stato – o può essere interpretato come – un sogno, o una grande metafora di ricerca? Le varie ipotesi possono convivere ospitando forse, ognuna, un tratto di verità. Anche in ciò, Hélène Grimaud è una neoromantica.