Ezio Bosso, la musica come autoaffermazione

È scomparso Ezio Bosso, compositore, pianista, direttore d’orchestra. Nato a Torino il 13 settembre 1971 in una famiglia operaia, si avvicina al pianoforte da bambino e a 16 anni se ne va di casa per seguire la sua passione. L’incontro con Ludwig Streicher, contrabbassista dei Wiener Philharmonic, segna il suo destino. Streicher lo indirizza all’Accademia di Vienna dove Bosso studia contrabbasso, composizione, direzione d’orchestra. E da contrabassista suona in importanti formazioni, tra cui la Chamber Orchestra of Europe di Claudio Abbado. Nel 2011, in seguito a un intervento per l’asportazione di una neoplasia, viene colpito da una sindrome neurodegenerativa (che inizialmente era stata erroneamente indicata dai media come SLA) che però non gli impedirà di continuare a comporre, suonare e dirigere formazioni internazionali.

Non è usuale che un musicista classico “spieghi” la sua musica in prima persona: come è nata una melodia, quale lettura umana e filosofica si celi dietro un brano o una sinfonia. Ezio Bosso fa comprendere direttamente dalla sua voce la musica da lui stesso scritta (“non amo usare la parola comporre – ha detto – io scrivo la musica”) e quella dei grandi del passato da lui rivisitata. Accade con The 12th Room un doppio album che prende per mano l’ascoltatore e lo conduce dentro l’universo umano, artistico e filosofico di Ezio Bosso. Un album che è innanzitutto testimonianza impagabile di una rinascita e del ritorno alla vita. Suona paradossale, ora che Ezio Bosso non c’è più, eppure è proprio la rinascita il leitmotiv esistenziale. Che ha affascinato anche i non cultori di classica perché è più della performance musicale, è un viaggio dentro la vita di un uomo che ha ritrovato il senso e la forza per stare al mondo.

Il disco The 12th Room è accompagnato da un lungo e articolato libretto, quasi un testo autobiografico. Il primo disco è composto da 12 brani, di cui sette di repertorio pianistico, il secondo contiene la Sonata n. 1 in Sol minore composta di tre movimenti.

«I brani – scrive Bosso -, come sempre nelle mie scelte, rappresentano un piccolo percorso meta-narrativo. Quelli di repertorio rivelano anche da dove provengo, dove si trovano le radici della musica che scrivo. Rivelano i due musicisti che convivono in me: il compositore e l’interprete. Soprattutto sono storie di stanze. Stanze a cui appartengo o che appartengono alla mia esperienza, che semplicemente appartengono alla storia delle stanze stesse. Alcuni sono brani che mi hanno aiutato a tornare a suonare, a uscire dalla “stanza”, quelli con cui ricomincio a studiare. Altri sono brani dedicati ad altri compositori, a storie di stanze o concepiti da esperienze avute da loro con esse. Mi sono reso conto che anch’io ho scritto su stanze in passato e non ci avevo mai fatto caso. Il primo disco rappresenta per me la preparazione alla Sonata, come fossero porte collegate che ci guidano da una stanza all’altra. Ma alla fine, come sempre, è quella storia che non puoi raccontare. Forse, seguendola, vi riconoscerete o vedrete che tipo di storia era. Perché per me, se racconti una storia la cambi ed è anche per questo che esiste la musica. Per farcele vivere le storie. Io posso solo provare a darvi gli elementi, gli strumenti, e aiutarvi un po’ a farlo. E se la regola dice che non si svela mai la fine di un libro o di un film, non si dice mai l’ultimo accordo di un brano».

L’immagine-concetto della stanza è il filo conduttore di tutti i brani, la stanza dove Bosso è stato chiuso durante la cura, la stanza dove ha ripreso a suonare: non meri spazi ma microcosmi che lo hanno trasformato dando nuova linfa alla creatività e al suo essere per la musica.

Impari a seguire veramente solo quando ti perdi…

Il primo brano, “Following, a Bird (Unconditioned) (Out of the Room)” è nato qualche tempo dopo “L’incidente”, è la prima uscita “dalla stanza”, quello con cui Bosso ricomincia a scrivere musica, è un brano per pianoforte solo che ha un significato molto forte per l’autore e apre tutti i concerti: «Ero nel giardino della casa dove sto molto d’estate, nella campagna bolognese, le gambe mi avevano lasciato da poco… Mi sono perso guardando un uccello volare in alto, lontano, al limite del visibile. Ero lì con lui, lo seguivo. Seguivo quell’uccello ed entravo nel cielo, nei suoi colori, mi vedevo dall’alto. Seguendolo ho perso la mia condizione per un po’; il cielo cambiava colore verso l’arancione della sera estiva ed io non mi ricordavo nemmeno più i problemi alle gambe. Senza farmi domande sul come o dove stesse andando, mi ero perso. Non è facile da spiegare come condizione, ma quando mi sono “svegliato” ho cominciato a ragionare sul fatto che per seguire bisogna perdersi. Perdere i pregiudizi, i problemi, le paure e imparare da ciò che vediamo, che sentiamo. Un po’ come in amore, perdi tutto il passato per seguire completamente. Seguire l’inaspettato (…), per questo vi auguro sempre di perdervi, per trovare. Per imparare a seguire».

Il dolore e la bellezza che indica una strada

L’ottavo brano si intitola “Split, Postcards from away (The Tea Room)”. La storia che vi è racchiusa merita di essere ascoltata dalla voce di Ezio Bosso: «Tempo fa mi commissionarono un lavoro sui cartelli stradali, cosa paradossale per me, visto che non ho mai avuto la patente. Così, “andando per cartelli stradali” ne ho identificati undici uguali per tutti i paesi del mondo e li ho usati come fossero macchie di Rorschach. Chiedevo alle persone che intervistavo cosa vedessero oltre la loro funzione. È uno dei miei metodi di ricerca. Dico sempre che la parte più lunga è la ricerca, poi la musica viene da sola. È così che ho scoperto la poesia dei cartelli stradali. Il brano prende spunto dal cartello stradale che in inglese viene chiamato “Split”, quello con le due frecce che si dividono, per

interderci. I più, guardandolo, parlavano ovviamente della fine dell’amore, del separarsi. Alcuni dell’allontanarsi dalle proprie radici, della sensazione di non appartenere a un luogo, altri invece delle culture che non riescono a incontrarsi pur provenendo dalla stessa fonte: Essere Umani. E altri dell’incapacità di ascoltarsi l’un l’altro. Ma l’esperienza che mi raccontò un vecchio veterano inglese,

mi diede un’immagine così forte che mi fece ricollegare tutto questo. Anche i miei ricordi e le mie sensazioni. Mi disse: “Ero in una piazza distrutta dalle bombe. Rumore assordante. Grida di dolore come se non esistessero più i colori. E io avrei voluto solo apparecchiare per il tè, con le tovaglie di broccato e le porcellane Royal Crown, come una perfetta Tea Room. Vedevo quel tavolo lì in mezzo. Come cercassi disperatamente di attaccarmi alle mie origini, alle mie abitudini per dimenticare l’orrore dove ero”».

Questo è un brano intenso, sconcertante: sullo sfondo delle note del pianoforte si sentono rumori di corde che vibrano, come strappate da mani inesperte, sentiamo il clangore di una battaglia che si fa sempre più stridente e invasiva. Poi, questa immagine del soldato che vorrebbe si materializzasse un tavolo con un servizio per il tè è evocata da note struggenti che generano una contrapposizione empaticamente forte. Ascoltare questo brano richiede di lasciarsi travolgere dal dolore: dopo l’abbandono e l’intermezzo, non resta che immergersi dentro quello che ci fa più paura, dentro l’assurdo di Camus. Dentro il tragico, l’angoscioso, l’inspiegabile. Non è da tutti, costa fatica e sofferenza, ma forse è l’unico modo per superare la china e intravedere un nuovo orizzonte. È così che questa musica porta dentro l’abisso e che poi con note leggere, scintillanti, pulite, cambia direzione e improvvisamente riconduce su una spiaggia assolata, dopo aver rischiato di affogare.

L’immagine simbolica del cartello stradale con le frecce una destra l’altra a sinistra ci dice Terzium non datur! Dobbiamo svoltare per forza “di qua o di là” sforzandoci di immaginare la bellezza dentro l’orrore. La via verso l’autenticità è fatta anche di immaginazione, una forza potente che se ben indirizzata ci può trarre in salvo.

Sgranchire la mente

Il nono brano “Gluck-Sgambati; una melodia di Gluck (The Therapy Room)” è una rivisitazione di una melodia di Gluck composta per “Orfeo ed Eurudice”, metafora anche questa di discesa nel buio e risalita. Sergej Rachmaninov eseguiva questo brano ogni giorno per calmare i suoi nervi durante una tremenda depressione che lo portò a rinchiudersi per circa due anni. Glielo fece scoprire uno psichiatra e lui lo usava quasi come forma di autoipnosi. Quando poi si ristabilì divenne uno dei suoi bis preferiti. È anche il brano con cui Bosso ricomincia a studiare dopo che esce dalla stanza della cura: «Lo suono e lo risuono, mi aiuta a riprendere coscienza delle mani. Perché ha una tecnica e una difficoltà particolare ed è scritto in modo che le due mani si intreccino continuamente, quasi accarezzandosi. E da questo continuo accarezzarsi, magicamente, nasce la melodia di Orfeo».

Filosoficamente, mi fa pensare a una sorta di “esercizio della mente” uno stimolo a leggere, scrivere di se stessi, fare pratica filosofica impegnandosi quasi come a scuola, immergendosi negli scritti di un pensatore. Sgranchire una mente addormentata o troppo immersa nelle cose quotidiane, meditare su un testo, leggerlo e rileggerlo quasi come fosse un mantra.

Riconoscenza e fiducia

Con il decimo brano, “John Cage: in a Landscape (The Smallest Room)”, Ezio Bosso rievoca un episodio della sua vita: «Ho avuto la fortuna di incontrarlo quando avevo 11 anni. Mi ha, per così dire, salvato da un cattivo maestro che mi gridava addosso e a volte usava le mani. E di cui ero letteralmente terrorizzato. Durante una delle lezioni in cui come al solito venivo maltrattato, entrò nell’aula questo signore di una certa età. Semplicemente si sedette e chiese se potevo ripetere l’esercizio che stavo facendo. Alla fine disse: “A me sembra molto bravo, perché grida?”. E almeno quel giorno il cattivo maestro chinò la testa. L’ho incontrato ancora dieci anni dopo e lui si ricordava perfettamente di me e di quel momento. John ha avuto molta influenza sul mio suono di scrittore di musica e di interprete, era uno sciamano in fondo e mi sono accorto solo da adulto quanto la sua musica e lui mi siano vicini. Grazie John».

Marco Aurelio apre i suoi “Pensieri” ringraziando i maestri di vita che ha avuto. Chi nella nostra vita ci ha dato, anche solo una volta, fiducia? Fermarsi a pensare: a chi dobbiamo essere riconoscenti? Quali persone hanno tratto il meglio da noi, ci hanno incoraggiato, spronato, sostenuto? Non lo facciamo spesso.

Uscire dalla caverna

L’undicesimo brano si ititola “Missing a part (The Waiting Room G.)”: «Ci sono incontri dove giri lo sguardo e dici: sì. Solo sì. Fai proprio sì con la testa. Non riesci a fare altro. E tutto è diverso. Tutto è cambiato. Quegli incontri dove scopri la parte che ti mancava, in realtà ti eri solo convinto non esistesse, perché noi esseri umani siamo belli anche per questo: siamo così fragili che ci convinciamo che non esista o non possa esistere quella bellezza infinita nella nostra esistenza. Che sia solo un mito. Lo facciamo per sopravvivere. Ci adattiamo. Ci adattiamo a noi stessi. Poi, appunto, giri lo sguardo e ti trovi di fronte alla porta che si è aperta. Che ti sembrava di aspettare sempre. E quando si aspetta ci sente come se ci mancasse una parte, un pezzo mancante. È una sensazione persino fisica tanto è presente. Così ho cominciato ad approfondire cos’è l’attesa. Deriva da tensus, “tendere verso”, ma anche da tentus “volgersi verso”, “rivolgere l’anima”. Ho raccolto storie di attese, ho chiesto a chi avevo intorno cosa provasse quando aspetta e cosa avvenisse alla fine di una attesa. Come faccio sempre, per capire meglio».

L’attesa e un nuovo orizzonte dentro cui inscriversi, mi hanno fatto pensare alla Caverna di Platone, a quella torsione dello sguardo di chi finalmente si libera delle catene e si volge verso gli oggetti che hanno generato le ombre, smascherando così una costruzione spacciata per verità.

Un po’ di leggerezza…

L’ultimo brano del primo disco, “Emily’s Room (Sweet and Better)” è ispirato da Emily Dickinson, una delle poetesse preferite da Ezio Bosso. Anche la Dickinson decise di chiudersi per tutta la vita in una stanza e “guardare il mondo attraverso una finestra, vera e immaginaria alla stesso tempo”. Chiamava le sue poesie “Le mie piccole stanze”.

Ricorda Bosso: «Ho scritto tanti brani sulle sue poesie. Questo è un frammento ispirato a lei che dice: “La dolcezza delle tue labbra e l’amaro delle tue parole”. Mi sembra quindi giusto chiudere questa prima parte proprio con colei che ha deciso di non muoversi più dalla sua dodicesima stanza». Una chiusura romantica e poetica. La musica è molto leggera, scarica dalle spalle quella pesantezza che si è accumulata lungo il cammino.

La vita non è un tempo ma uno spazio

The 12th Room, è la sonata che dà il titolo all’album, è un’unica melodia costruita sulla “famigerata” dodicesima stanza. Questa la scansione della sinfonia: Entering the Room, Dressing the Rooms, Imaginary Room Mates e The 12th Room. Una sequenza di stanze segna il cammino della rinascita dell’autore, quel ri-cominciare cui ci si è avvicinati con il primo disco.

Scrive Ezio Bosso: «La parola “stanza” significa fermarsi ma anche affermarsi. È una parola così importante eppure non ci pensiamo mai. La diciamo e basta. Le stanze le abbiamo inventate. Le abbiamo costruite quando abbiamo trovato finalmente un posto dove fermarci. E abbiamo dato loro  nomi, numeri e significati, a volte poetici: la stanza dei giochi, la stanza della musica, la stanza dei sogni. La stanza della luce o la stanza cieca (…) Le stanze dove si impara le chiamiamo “aule”. Che bel nome, vuole dire libero, pieno di aria. E quelle dove si rinchiudono le persone “celle”, come se non esistessero più, come se non fossero visibili. Poi ci sono le stanze con un carattere: le stanze della gioia o del dolore, le stanze della memoria, le stanze abbadonate. Stanze che fanno paura come quelle del potere, altresì dette “dei Bottoni”. Ci sono stanze in cui rifugiarsi e altre in cui auto-recludersi che in fondo sono parenti strette. Insomma, davvero sono infinite. Ogni stanza ha un suo suono, un suo odore, un suo tatto e una luce che influisce su di noi e influenza la nostra memoria. (…). Per ognuna di esse che percorreremo, apriremo un porta che ci porterà dentro ad un’altra stanza o fuori. Perché le stanze si percorrono. Nelle stanze si entra e si esce. Le stanze son vuote o piene e siamo noi a deciderlo, come se le nutrissimo o le vestissimo e svestissimo. Perché le stanze cambiano dopo ogni secondo che passa, le cambia la luce, le persone che ci passano, che le vivono. Assorbono la nostra energia e mutano con quella che lasciamo (…) Molte delle creazioni dell’uomo avvengono in una stanza. La vita quindi non è un tempo ma uno spazio. E lo spazio è infinito».

La dodicesima stanza non è l’ultima, è quella da cui si ricomincia, si rinasce, si cresce. Nasce qui la  musica dell’assoluta autenticità. L’essere per la musica del compositore esplode alla massima potenza, è la sintesi hegeliana che segue al dolore e al cambiamento. La parola stanza significa anche “affermarsi”, rimarca Bosso. E proprio di un’auto-affermazione in senso nietzscheano si tratta. Lo si sente nei picchi di note acute e nei lunghi silenzi, nelle note appena sfiorate e in quelle  “urlate”. Una musica liberatoria, potente, un’espressione dionisiaca di volontà di vita.