Agogica e Dinamica

“Nella parola noi distinguiamo il suono dal senso, ma il suono – il materiale sonoro che funge da veicolo del senso – è certamente neutrale rispetto all’istituzione di questo o quel riferimento all’oggetto, non vi è nulla in esso che prospetti o suggerisca un determinato legame di senso piuttosto che un altro qualsiasi. Secondo questa analogia, anche al materiale musicale spetterebbe un «senso», solo attraverso un’immissione estrinseca al materiale stesso benché, come del resto può accadere anche nel caso della parola, senso e materiale possano apparire come reciprocamente e inestricabilmente connessi l’uno all’altro”; così Giovanni Piana, nella sua Filosofia della musica, si interroga sul rapporto tra suono e senso. Ma se nella parola risulta evidente la possibilità di separare il significante dal significato, sciogliendo la sintesi kantiana tra materia e forma, possiamo pensare che avvenga lo stesso nella musica? Secondo un’interpretazione fenomenologica, il senso del suono è il suono stesso, in relazione alla coscienza, e sono state l’abitudine, l’assuefazione e la tradizione a dare solidità a quella serie di “connessioni precarie” regolate dal caso che oggi riconosciamo come musica. Ma proviamo a pensare, per assurdo, che il senso di una musica sia invece separabile dal suono corrispondente, o che almeno si possa tentare di tracciare l’origine trascendentale del “principio dell’accidentalità” in musica, secondo cui ogni necessità, come la risoluzione della dissonanza nella consonanza, sarebbe solo apparente: non pensiamo più alla musica nella sua realizzazione empirica, ovvero al suono, onda in primo luogo fisica; ipotizziamo invece che la musica in sé non sia oggetto, ma soggetto e, nello specifico, soggetto di un processo dinamico che la porta prima a oggettivarsi nel suono, fino a ricomprendersi come sonorità che è musica, senso di quel suono.

Separiamo quindi la musica come soggetto dall’oggetto in cui si realizza – o meglio, si dà nella fenomenologia intenzionale –, prima del suono dei concerti e di un’esecuzione: otteniamo innanzitutto un principio inudibile. Boezio nel De institutione musica presentò una musica humana, inudibile, non ancora oggettivata in musica instrumentalis: quest’ultima seguirà, in seguito, le regole “razionali” del suono, dal momento che lo svolgersi della musica come la conosciamo è sempre “razionale” nei suoi rapporti armonici, dove con “razionale” si intende in senso hegeliano una ragione, o in questo caso un senso, che si è realizzata nella realtà, secondo un disegno consolidatosi e perfezionatosi concretamente nel tempo.

Il suono è veicolo, codice in cui sono riportati il “sentimento” e lo “spirito” del tempo, di modo che l’ascoltatore possa a sua volta dedurne un senso. Quest’ultima traduzione fenomenologica del senso deve però essere preceduta da una trascrizione, ovvero una soggettivazione della musica.

Perciò la musica classica si presenta con un duplice livello di significato: la memoria viaggia nella musica, la personalità artistica si addensa nei filamenti del codice musicale, eventualmente riportati per iscritto, in seguito. La composizione è infatti trascrizione dell’informazione emotiva (Fühlen) all’interno del sistema ancora puro della musica: è individuazione della musica, che diventa soggetto, nell’attimo stesso in cui il compositore sacrifica la sua volontà particolare, facendone un’universalità di senso dentro la musica. Allora il sistema freme di oggettivarsi, tradursi prima sulla carta, poi nel suono. Quello stesso suono è infatti esito di un’esecuzione, che svolge le connessioni codificate: traduce la musica, ovvero passa dall’universale al particolare, riallacciandosi ad una nuova sensibilità, questa volta dell’ascoltatore. Il tempo che trascorre fra la trascrizione e la traduzione coinciderebbe allora con la musica nel suo essere soggetto, dotata di una sua specifica tensione, un voltaggio, o meglio di un’agogica del senso propria di quella soggettività; ma essa anela prima di tutto ad ottenere un corpo, dando luogo a una forma. È nel caso dell’improvvisazione, però, che sperimentiamo chiaramente l’idea di una musica-soggetto, poiché viene meno l’oggettivazione intermedia di essa sulla partitura: il musicista sembra quasi scomparire, farsi ombra, sotto la tensione incosciente che la musica fa scorrere nelle sue dita esperte. Sembrerebbe qui già opportuno pensare a una sintesi della musica come principio irrazionale che opera razionalmente: identità fra spossessamento di sé (soggettivazione della musica) e autocontrollo (oggettivazione della musica). Qual è però questo principio irrazionale che precede il suono, ovvero ciò che resta della musica se la si pone al di fuori della sfera del suono?

L’in-sé della musica è stato spesso identificato con un principio cieco, come la Volontà di Schopenhauer, nonostante la dialettica con cui questo si realizza, e quindi il per-sé, rimandino a ben vedere alla Ragione di Hegel: la coimplicazione di questi due momenti potrebbe bilanciare “accidentalità” del caso e convenzione storica, “irrazionalità” e “razionalità”.

In questa circostanza, la musica come principio pre-fenomenologico, sarebbe “tensione” del tempo che passa fra trascrizione (senso) e traduzione (suono): magnetismo che attrae a sé le potenziali note di una Stimmung. Le emozioni si svolgono da sé, si auto-ingenerano; trascritte secondo una “tonalità affettiva”, verranno poi tradotte, storicizzate in un “sentimento della tonalità”, così come si è di fatto consolidato nei secoli. La tecnica e il superamento di questa, costituiscono di fatto la possibilità che la musica si oggettivi, dotandosi di una dinamica del suono, traduzione oggettivata dell’agogica. Essa ha paradossalmente in sé la potenzialità nel contempo di tutte le forme e di una sola, quella storico-razionale: a differenziarne e direzionarne lo sviluppo concretamente è infatti l’abitudine, che rende necessità ciò che sarebbe puro caso.

Ma si può pensare quindi che la musica abbia una simile qualità, a prescindere dal suono: ovvero una certa autonomia, e che quindi in senso schopenhaueriano il suono sia l’oggettivazione di una volontà, la musica, qui anche intesa come la facoltà di improntarsi e di modellarsi da sé, di calamitare? La musica sarebbe allora un magnetismo, un potenziale che si prepara ad avvicinare o allontanare le onde secondo un principio irrazionale perché indipendente dall’esecutore, ma che infine opera razionalmente secondo i nòmoi dell’esecuzione. La musica prima del suono è allora un’attrazione magnetica, che – portata nel campo del fenomeno – dà luogo a un’accidentalità dell’esperienza; sembra essere un senso irrazionale che guadagna di razionalità.

Sehr rasch, Aufschwung di Schumann. Uno slancio impaziente di oggettivarsi, di suonare: le mani diteggiano, non possono custodire il segreto; e in ogni momento la passione del realizzarsi si lascia ascoltare dentro le dita, mentre di fuori è inudibile. La musica vuole soltanto annullare la differenza fra di dentro e di fuori, comunicare fra interno ed esterno. Ho visto un vecchio violinista imprimere diteggiature su un lettino di ospedale, inebriato per quei lunghi corridoi vuoti che potevano suonare assieme al suo violino: accompagnare la musica in tutte le stanze. Il musicista vorrebbe trasformare tutto ciò che abita in una cassa di risonanza, dalla “cameretta” in cui ha steso le prime note, al mondo che, ruotando, conta gli anni; vorrebbe duettare con quel mondo. È un recital della possibilità: in ogni falange c’è un suono soppresso, un sorriso che se ne va. Solo il musicista gode di quel silenzio: la musica per lui esprime l’agogica dell’esistenza, l’attimo sospeso prima dell’attacco, gli amici che ancora lo vengono a trovare; ma soprattutto rappresenta, ai suoi occhi stanchi, il modo in cui tutto ciò che non ricorda ha preso forma in una vita. L’arte di manifestare i nostri misteri, l’ignoto che abbiamo più caro.

Invece di rivelare l’isomorfismo fra realtà e ragione, la musica ne accentua le contraddizioni, problematizza gli eventi con “ironia romantica”, generando allo stesso modo consonanza e dissonanza; il risolversi è condizione sufficiente ma non necessaria. Ma a questo ribaltamento consegue che il momento di oggettivazione sia non negativo bensì affermativo: il tempo non si svuota – non c’è una kénōsis – ma anzi si riempie nel suono.

“Il suono non può stare”, scrive Massimo Donà. E la musica? La musica può stare; la musica resiste, anzi riesiste. Prima del suono la musica è immobilità in tensione, fissità che il pensiero religioso di Agostino ha inscritto nell’ordine dell’eterno: per questo la musica genera in noi tanto l’intuizione del passare del tempo (suono) quanto del cristallizzare nel tempo (senso); in questo, la musica è tutt’uno con la memoria della musica. Facendo propria l’espressione di Leopardi nello Zibaldone (602-603), la musica – come espressione dei limiti conoscitivi dell’esperienza – può forse essere un tentativo di “formarci una similitudine di una sostanza immateriale” e cioè di accedere a una convincente nozione di tutto ciò che riguarda l’anima e lo spirito. Sarebbe tuttavia possibile considerare la musica non come “similitudine di una sostanza”, ma nei termini di un soggetto immateriale. “Il suono c’è quando c’è”, “non può stare”: ma la musica non è solo suono. Una parte della musica sta, anzi non si muove mai. Infatti, la dialettica hegeliana rende pensabile il movimento, proprio perché mostra lo sviluppo del soggetto dall’iniziale immobilità: la musica rende pensabile il tempo, lo oggettiva nel divenire. Quando la musica-soggetto entra nel tempo diventa suono, si è già oggettivata. Quindi qual è la forma della musica prima del suono, prima del tempo? Prima di diventare suono la musica è immobile, soggetto potenziale, essa è forse la possibilità del movimento, del divenire che ancora si trattiene nella potenzialità attraente e magnetica: l’apriori della musica è il tempo, il tempo anaritmico senza misura, che oggettivandosi nel suono diventa udibile razionalmente. Potremmo dire, il tempo prima di entrare nel tempo e farsi suono. Il tempo si fa musica per conoscersi, per rendersi pensabile grazie al fraseggio, vivibile attraverso il musicista, nelle note fra le note. Il tempo, in musica, si fa persona, volto che amiamo.

Qualunque Concerto per pianoforte e orchestra svolge una dialettica tra rigidità e fluidità, fra stasi e movimento: la musica si scioglie, gli archi tessono gli umori tiepidi del divenire; il pianoforte assembla e memorizza come un cronometro, pietrifica il tema nelle sue reiterazioni, che sono conferme della melodia nell’armonia. In questa associazione di due incomparabili sonorità, pensiamo alla musica come soggetto, ovvero processo. Prima l’orchestra, che presenta: non fissa ma sviluppa, trascina con sé, porta avanti; il pianoforte soppesa nel tempo, oggettiva e scontorna. L’immagine statica si sovrappone a quella in movimento: l’”indeterminato e vago” combacia con il “chiaro e distinto” e la memoria, come un bambino, si taglia coi propri ricordi.