L’invisibile agli occhi (prima parte)

Tratto da Voir et entendre (traduzione di Guido Giannuzzi)

Ma torniamo all’origine di questa concezione che postula l’anteriorità delle immagini, perché è qui che la vista si trova in una posizione di privilegio agli occhi della filosofia del sapere. Cartesio sosteneva, al pari di Platone, che noi non vediamo con gli occhi ma attraverso di essi. Poiché si ritiene che l’uomo abbia delle idee innate (delle immagini delle cose), e che il reale sia sempre lo stesso, se ne può desumere che esso sia accessibile attraverso la conoscenza. Heidegger non è lontano da questa idea quando afferma che non udiamo con le orecchie ma «per mezzo» di esse. Non ci dilungheremo più a lungo su questo tema. La filosofia di Cartesio, lo sappiamo, ribadisce un po’ ovunque, per esempio nella Diottrica, che «è l’anima che sente e non il corpo». Ciò vuol dire che noi vediamo in prima battuta le immagini e che solo in seguito avvaloriamo la loro realtà in contrapposizione alle impressioni sensibili.

È l’immagine che rende possibile l’impressione e non l’impressione che precede la produzione delle immagini, come, a suo modo, insisterà a dire anche Kant. Diventa così possibile concepire le immagini come dei «giudizi percettivi» e non solo come dei simulacri, secondo quanto scritto dall’autore di un recente saggio già citato. Anche il linguaggio si rende essenziale per una corretta lettura delle immagini. Parrebbe una parodia da questo passo tratto da Compagnia di Samuel Beckett:

Ma quando l’occhio indugia allora diventa oscuro. Quindi più l’occhio indugia più diventa oscuro. Finché l’occhio si chiude e liberata dal poro la mente si chiede, Che cosa significa? Che cosa significa tutto questo che a prima vista sembrava chiaro?

Da una parte, Cartesio non pretende che l’immagine sia identica all’oggetto che rappresenta: è essa, quella reale; quanto all’oggetto, basta che gli «assomigli un po’» perché possa essere «concepito». D’altra parte, solo il pensiero è capace di vedere.

     Si capisce che la vista abbia un’importanza capitale nell’intero sistema cartesiano, nonché nelle prospettive che a esso si ispirano. In cosa consiste grosso modo il suo «metodo»? Nel «vedere chiaramente e distintamente» con l’aiuto del «buon senso», cioè «il lume naturale». Concependo le cose nella loro semplicità, noi possiamo conoscerle (grazie all’intuitio, la «vista diretta» delle cose nella coscienza) e acquisire un sapere – «sapere che si riduce a vedere», queste le esatte parole di un eminente commentatore di Cartesio – che ci dirige verso il vero, all’«evidenza», che altro non è se non la loro visione (attraverso l’intelletto): manifestatio veritatis, manifesta visio. – E che dire della «facoltà» vera e propria del conoscere? «La conoscenza si definisce attraverso la vista»: dapprincipio il sensibile è un’immagine – ogni sensazione si riassume nella visione –; questo, è ciò che vede confusamente l’immaginazione. Ebbene, grazie al giudizio (il fatto di «veder chiaro»), possiamo dissipare l’equivoco: spogliando le cose della loro «forma esteriore», il loro aspetto percettibile (la loro apparenza) e vedendole come «pura entità», cioè senza materia. – E ancora, qual è l’«oggetto» proprio della conoscenza? Certo, non il reale in rapporto ai sensi, troppo sfuggente, bensì la sua immagine nella coscienza, dove l’oggetto destinato a essere conosciuto (l’oggetto percepibile) è rimpiazzato dall’idea di esso che Dio ha posto in noi (che si traduce, come visto, in «realtà oggettiva» o «intenzionalità»). «Così, scrive Laporte, l’oggetto dell’intelletto nella conoscenza, in ultima analisi, è l’intelletto stesso». La conoscenza pretende di offrire un’immagine del reale; rimettendo in discussione ciò che è visibile, essa finisce per provocare un gioco di specchi, dove nessun oggetto viene più percepito:

Se cerchiamo di considerare lo specchio in sé, scrisse Nietzsche in Aurora, finiamo per scoprire su di esso nient’altro che le cose. Se vogliamo cogliere le cose, ritorniamo in definitiva a nient’altro che allo specchio. Questa è la più universale storia della conoscenza. (Nietzsche, Aurora)

– In sostanza, il cartesianismo, nella sua versione iniziale e contemporanea, trae ispirazione a sua insaputa dall’evidenza, in senso aristotelico, mantenendo la ferma convinzione, che a noi pare appunto discutibile, che il reale si veda. Discutibile soprattutto per il fatto che, in questo accanimento contro l’apparenza, risulta poi che ciò che si vede (l’immagine) è per l’appunto invisibile agli occhi.

     Ma solo il pensiero è capace di concepire e, così, può credere di vedere: Cartesio fa l’esempio dei quadri, decifrabili (essendo, secondo lui, mimetici) tramite la ragione e non tramite gli occhi, come afferma all’inizio del quinto discorso della sua Diottrica. Noi riconosciamo cosa rappresenta un quadro – se ammettiamo che l’arte voglia prendere il posto del reale e non crearne uno completamente a parte – proprio perché siamo in grado di concepire in astratto ciò che vediamo, perché riteniamo che l’arte esprima sempre un contenuto, che il messaggio che essa veicola sia extra-estetico (e precisamente destinato ad altro che non alla sensazione). Possiamo, allora, dire che leggiamo un quadro, attività che effettivamente i sensi non saprebbero svolgere. Peraltro, quest’idea non ha senso se non assimiliamo la sensazione a una sola delle sue forme, la vista, che mantiene degli stretti legami con il linguaggio. «Vedere» il colore bianco, chiaramente non è compito degli occhi: questi percepiscono certe intensità della luce che il linguaggio riunisce sotto il vocabolo «bianco», come attesta l’esempio di Bergson sulla foglia bianca che, sia che venga illuminata dalle candele o oscurata dalle ombre, continueremo per abitudine linguistica a chiamare bianca, o ancora, a contrario, il fatto che gli Eschimesi abbiano nove differenti nomi per questo «stesso» colore. Lo si è detto, vediamo solo ciò che è utile per il nostro agire; o ancora, come scrisse Wittgenstein, vedere una cosa è sempre interpretarla, dunque scambiarla con un’altra (vedere una cosa «in quanto» qualche cosa non attiene alla percezione quanto al pensiero, ovvero al linguaggio). I colori non sono qualcosa che noi definiamo, ma dei nomi, e questi nomi servono a comunicare qualcosa, a designare qualcosa nel reale che investe un’azione particolare.

Inutile intrattenersi lungamente sull’idea della retroattività dell’immagine. Accontentiamoci di rievocare un celebre esempio che attirò l’attenzione dei filosofi illuministi. Un avvocato irlandese, W. Molyneux, aveva domandato a Locke se un cieco, dopo aver costruito un mondo a partire dagli altri suoi sensi, miracolosamente avesse recuperato la vista, sarebbe stato capace di distinguere immediatamente degli oggetti. In sostanza, come far coincidere ciò che noi abbiamo immaginato grazie all’intelletto riguardo a tutte le percezioni fornite dagli altri sensi eccetto la vista con un’altra immagine che non coincide con quella che noi ricevevamo in precedenza? La risposta a tale domanda sarà diversa, ai nostri occhi – aldilà di qualunque prospettiva filosofica –, a seconda che noi si abbia o meno un pensiero fondato sulla vista. Se partiamo dall’immagine per metterla alla prova del reale, naturalmente affermeremo che l’esperienza non potrà che seguire la direzione della coscienza e l’oggetto sarà allora immediatamente riconoscibile; la nuova immagine completerà un’immagine già precostituita. Se, invece, sosteniamo, che non vi sia immagine, che, in un certo senso si affidi inoltre a un’autorità razionale, e in realtà al linguaggio, non potremo accettare l’idea che quel cieco «riconosca» delle forme, ma diremo piuttosto che egli vede le cose come in un caleidoscopio, nient’altro che delle forme mutevoli che egli non sarà capace di assimilare a ciò che un tempo furono i confini e i limiti della sua memoria e del linguaggio. Egli comincerà ad avere, in questa prospettiva, solo impressioni fuggevoli che non gli daranno punti di riferimento migliori di quanti ne avesse quando era ancora privo della vista. Diderot, nella sua Lettera sui ciechi, arrivò circa alla stessa conclusione: qui, chiama immaginazione la combinazione delle impressioni ricevute dall’occhio e che questo equipara alla gamma dei colori, così che il cieco dalla nascita, ammettendo che sia stato capace di «immaginare», non farebbe altro che «ricordare e combinare delle sensazioni di punti tangibili». Così, scrive Diderot, se Cartesio fosse stato cieco, avrebbe sicuramente posto l’anima «all’estremità delle dita» e, invece di vedere (o voler vedere) Dio, avrebbe detto, come il nato cieco di cui parla Diderot, Saunderson:

Se volete che creda in Dio, dovete farmelo toccare.