L’interprete in quanto creatore (seconda parte) | Filosofia dell’interpretazione musicale

Con Massimo Recalcati: cosa significa ereditare? L’atto dell’ereditare è clonazione del sapere trasmesso? O, all’opposto, è necessità di far piazza pulita di ogni acquisizione precedente con l’intento di dichiararsi orfani e farsi da sé? Ma, se i termini orfano ed erede hanno un etimo in comune (come suggerisce Massimo Cacciari), occorre a noi, dice Recalcati, precisamente un nuovo modo di concepirci come eredi: non pedissequi esecutori di riti preordinati, fondati dai Padri, né semplici prosecutori di scuole da omaggiare acriticamente; ma nemmeno, all’opposto, contestatori irriconoscenti di ogni eredità, ignari per partito preso di ogni vincolo. Siamo figli: di genitori, di tradizioni, di circostanze; di culture; siamo eredi anche nel senso greco di scelti, eletti, elevati e chiamati all’ereditare stesso. Ciò va riconosciuto, e attivamente: l’erede vero e degno è chi riconquista l’eredità, chi si muove in cerca dei padri... Eppure dobbiamo anche sperimentare di persona l’esaltante e terribile responsabilità delle decisioni personali: farci cuneo d’apertura di un mondo nuovo, trasgredendo e tradendo (è indispensabile) piatte e sterili fedeltà: con la missione, peraltro, di preparare il nostro tramonto, di lasciare a nostra volta allievi ed eredi critici, plurali e, grazie a Dio, non identici a noi. Creatività è, dice Recalcati, imbrattamento della tela bianca: è imprevedibilità assolutamente singolare che nessuna struttura o sistema può contenere o anticipare.

Per tornare fuggevolmente all’ambito ebraico, se volete, guardate questa splendida conferenza sulle Dieci Parole. Siamo perfettamente dentro il nostro argomento, se sappiamo leggere tra le righe. Haim Baharier è a Genova. La sua è la lezione inaugurale di quattro, del tutto introduttive – le chiama “premesse”, ma sono conferenze grandiose – alla sostanza specificamente ebraica delle Parole. (Ma, effettivamente, e come interpreti: possiamo dire altro che non sia Introduzione? In ogni modo l’edificio è asistematico, difficile a seguire: è il motivo per cui mi permetto di segnalare alcuni momenti topici con minuto relativo). L’intervento è disseminato di motivi da collegare e ruminare nel tempo. Primo: l’interpretazione come chiave dell’approccio al Testo – qui si parla del Testo Sacro mosaico, naturalmente: ma la cosa va estesa analogicamente a molto altro. Ma come? Gli ebrei non hanno forse approccio diretto alla Parola? Non sono uniti al Creatore, come diceva Moni Ovadia, provocatoriamente, in una delicata e spassosa barzelletta, da un filo così diretto che per loro “ogni telefonata al Santo Benedetto è urbana?” No, dice Baharier [min. 30 e sgg.]: sempre, ebraicamente, l’interprete media, attualizza, provoca a sua volta, apre, fa vivere: o commentare o morire, recita un significativo detto talmudico. Ciò implica – ed è il secondo punto notevole della conferenza – un paradossale e spregiudicato approccio alla annosa questione del tempo cronicamente inteso [min. 27 esgg.]: tempo che per l’interpretazione si rovescia,  si contamina,  si avvale d’altro; e sa ignorare leggi filologiche troppo strette. Terzo [min. 25 e sgg.]: la pena, l’incertezza e il rischio personale dell’uscita dalla schiavitù e dalla strettoia di Mitzraim: anche questa è questione di responsabilità personale e di interpretazione – da attualizzare ogni giorno. Quarto: il Testo “come una musica” [min. 15 e sgg.], aldilà e prima delle parole: grande metafora volta a significare il rapporto – dinamico, vivo – tra oralità e scrittura, su cui torneremo in puntate successive.

Il problema dell’eredità vale dunque per entrambi i poli: anche per il testo e per il padre del testo, che deve, per così dire, accettare di entrare nella Storia come elemento che sarà rivisitato di continuo, e la cui realtà sarà retroattivamente costruita. Come ricorda Paul Ricoeur, il viaggio del testo – che acquista autonomia a opera chiusa, oppure, più tipicamente e compiutamente, dopo la scomparsa fisica del suo autore – è odissea chiamata a costituire, per il tramite del lettore, nuovi vocabolari del sentire e del pensare, nuove interpretazioni dell’esperienza, nuove basi su cui comporre, poetare, filosofare, essere.

E Umberto Eco sottolinea, nella Prefazione a Il Nome della Rosa, quanto “il testo sprigioni i suoi effetti” ben oltre la volontà cosciente o le intenzioni del suo autore, costituendosi come tessitura a connessioni interne offerte all’interpretazione e alla storia.

Effettivamente, qui è il punto di tangenza tra morte e vita, tra composizione e lascito, e interpretazione. 

Ora, senza minimamente presumere di concludere un discorso troppo profondo e qui solo appena aperto, chiudo l’articolo con una immagine che ci introduce al prossimo argomento. Siamo in Russia, gennaio 1943. Assedio di Leningrad. Tre anni. Un uomo di singolare prestanza e bellezza, straordinariamente ispirato, con un paio di guanti di lana che lasciano scoperte solo le dita, suona il pianoforte in Teatro – un teatro dismesso, bombardato, eppure ancora grandioso e abitato dallo spirito dell’arte. Nella sala, freddissima, non è solo: c’è, incredibilmente, il pubblico: una folla ondeggiante, crescente, varia, commossa, fatta soprattutto da donne, bambini e anziani, accorsa da case gelide e nascondigli improbabili, corre serissimi rischi pur di ricevere Cibo dell’anima, vita e speranza, cioè – nel codice russo – musica, arte, bellezza. Perché sono lì? Per compartecipare al Rito; per affermare che, dopotutto, se siamo qua a intrecciare ghirlande di ascolti, forse un domani è ancora possibile, e il mondo rifiorirà, e l’uomo parlerà ancora all’uomo, e il senso del vivere, in quel deserto di pericolo fame e morte, dopotutto è ancora salvo, e la vita non era solo un remoto e vano sogno… E’ il pianista Vladimir Sofronitzkij: pianista eccelso e uomo di sublime bontà d’animo. La musica è quella di Aleksandr Skrjabin: il filosofo-musicista-poeta protagonista della nostra prossima puntata: il suscitatore di mondi, il creatore orfico di una musica che redime, salva, trasfigura uomini e cose.