Cortei d’ombre | Richard Strauss, Metamorphosen

Marzo 1945. La Germania nazista sta vivendo la fase più cruenta e distruttiva della guerra, ormai agonizzante sul baratro della catastrofe, della propria soluzione finale: città devastate, incendiate, distrutte, macerie materiali e spirituali che gravano sulla coscienza collettiva alimentata da false dottrine, dalla follia elevata a simbolo di un nuovo Umanesimo.

Nel solitario rifugio di Garmisch, sulle Alpi bavaresi, Richard Strauss, ormai ottantenne, apprende la notizia del bombardamento americano su Vienna e dello sventramento del Teatro dell’Opera, ultimo altare della grande tradizione musicale mitteleuropea dopo la distruzione dei teatri di Monaco, Dresda e Berlino, che avevano ospitato le sue composizioni più prestigiose, dai poemi sinfonici alle opere teatrali. L’emozione tinge di profonda tristezza gli ultimi ricordi, le ultime trasfigurate visioni, lanciate oltre i profili dei monti per dissolversi nella totale grande Morte.

Cosa è rimasto tra le strade e nei giardini di Monaco? Cosa sotto i tigli di Berlino? Non più la Ruhe silenziosa e profonda, magia dell’anima cara alla tradizione tardo-romantica; non più la dolce morte vagheggiata da Hans Castorp nella Montagna incantata di Thomas Mann, sublime volo dell’ultimo notturno menestrello sul meraviglioso feretro del Lindenbaum di Schubert; non più canti di nostalgia al cospetto della Bellezza sull’ultima magia dell’anima… No. Non più visioni estetizzanti… Solo morte e distruzione, già profetizzata qualche decennio prima da Gustav Mahler nei versi oscuri del Brindisi del dolore della terra di Das Lied von der Erde, nelle grida selvagge della spettrale figura di una scimmia accovacciata su tombe aperte ai raggi di luna… forza malefica, arcana e magica, che muove senza controllo il destino del mondo, satanica forma di divinità erta a simbolo della natura umana più perversa e malvagia, tregenda del tempo futuro, dell’ottuso ottimismo del Novecento, intuita da Mahler e cantata in tragica profezia anche nel movimento finale della Sesta sinfonia. Nell’ossessione di quei brandelli sonori infiniti e cangianti, nel loro sound tragico e distorto, già sfilavano incubi di marce selvagge, brutali, deliranti… di insegne imperiali e lugubri emblemi di svastiche, di inni intonati alla furia del demonico potere della “guerra a tutti i costi” fino all’abisso della follia senza redenzione; la stessa follia dei dionisiaci ditirambi di Zarathustra, anacoreta senza dio e carnefice di se stesso, avvinghiato alla propria tomba e chino sull’abisso del Nulla, sulla morte dell’anima, sulle fosse spalancate della Germania del 1945… su città distrutte, su palazzi, musei, chiese sventrate, polverizzate sotto tonnellate di bombe; su milioni di persone in fuga dal proprio passato, mentre ancora risuona l’ordine di proseguire la guerra fino alla sconfitta totale… su persecuzioni, stragi, genocidi di anime annientate, perpetrati sotto l’acro odore di cenere nera e densa… su uomini umiliati e impotenti, costretti ad annullare se stessi, a ballare nudi intonando canti nel macabro circo della perversione, mentre anche la legga antica della Torah brucia nelle fiamme di un inferno che liquefa e congela l’anima. «Sono fuggite tutte le belle parole, come api da un alveare circondato di fumo», aveva scritto nel luglio del 1941 Avraham Sutzkever, ultimo cantore yiddish, da un fuligginoso angolo di Vilna con la speranza che, da qualche parte di un vicolo nascosto della coscienza, potesse pulsare ancora «un minuscolo nervo salvato dallo sterminio, un ultimo lamento che si ribella a quel cieco silenzio che viene sigillato con un cumulo di terra».

Come percepire tutto questo dolore? Come presa d’atto dell’annientamento di un popolo, di una cultura, di una storia e, nel vuoto ventre dei teatri, persino della morte dell’Arte? Come diabolica vendetta sul mondo di antiche utopie? sul mondo del Bello, del Nobile, del Grande? Cosa rimane sotto i tigli di Berlino?… Solo un corteo di ombre, che sfila sul confine del baratro… ombre senza luce, senza meta, senza vita.

Nella silenziosa rassegnazione della senilità, Richard Strauss recupera le ultime forze creative, le ultime riflessioni da “sopravvissuto” di una Germania niente affatto “purificata” dalla propria “magnifica guerra”, e in un solo mese compone il Requiem di quel corteo di ombre: Metamorphosen, l’opera della tragica dissoluzione della storia e dello spirito di un intero popolo, affondato nel mare profondo della dissoluzione esistenziale.

Corteo di ombre, brandelli di temi in continua metamorfosi sull’ostinato giro delle voci, dei pensieri che sorgono e si inabissano nell’oscuro flusso della musica, che canta la propria fine rinunciando ai colori strumentali, alla vitalità ritmica, alla forza maestosa delle grandi compagini. Qui, ora, solo 23 archi solisti (10 violini, 5 viole, 5 violoncelli, 3 contrabbassi) per un sapiente Studio articolato polifonicamente e tripartito in un Adagio dalla sonorità mesta e profonda, un tormentato Agitato centrale e la ripresa dell’Adagio iniziale.

Nella severa bellezza della musica Strauss afferra il gelo della propria anima, che mormora sorda e silente sulle macerie di città perdute, e apre il sipario sul suono misterioso e profondo di viole e violoncelli, senza violini: suoni privi di colore e di calore, divergenti nel tessuto fonico di pensieri abissali, sorti dalle profondità della coscienza sull’agonia del mondo, sul senso oscuro della storia. Poi, negli slanci sofferti dei violini, lacrime di puro dolore e reminiscenze tematiche della Marcia funebre dell’Eroica beethoveniana e dei notturni canti di Also sprach Zarathustra, dialoghi dell’oscuro filosofo con una Vita che non si lascia ormai più possedere.

Emozioni segrete, disillusione visionaria e stanca, sussulti di un’anima delirante al cospetto di Thanatos: ormai tutto risuona confusamente di vita e di morte. La tensione preannuncia l’Agitato, fobico, ossessivo. Non più eroi, canti dionisiaci, esuberanza di passioni, sete di vita, nature grandiose, cattedrali sinfoniche, sublimi trasfigurazioni. La nuova luce mantiene il colore tetro del dolore e del delirio che avvolgono il flusso delle pulsioni interiori, su cui si staglia, ossessivo, il tema della Fuga della Prima sonata per violino solo di J. S. Bach: ultime grida di vita, che sembrano voler emergere con forza disperata dalla profondità della prospettiva tonale per conquistare la superficie luminosa di quel complicato quadro sonoro, il punto di tensione della parabola ascendente della musica. Ma è inutile salire oltre se stessi. La visione finale di quei tre secoli di arte, evocata a frammenti tematici, è ancora corteo di ombre, evanescenza di lanterne magiche, di fantasmi proiettati sulle pareti cristallizzate dal dolore. Le loro voci risuonano trasfigurate su risonanze cave di vita e di morte, sui timbri mesti e profondi dei violoncelli, sulle voci flebili delle viole, nella grande solitudine intrappolata nel flusso quasi surreale della musica, per poi spegnersi improvvisamente nel silenzio di una pausa, sul confine del nulla.

Riprende l’Adagio: nel fugato stretto riemerge prepotentemente il tema bachiano, ultima voce, forse, di un passato che, come il «nervo salvato dallo sterminio» della poesia di Sutzkever, ancora pulsa di un ultimo lamento, ribelle al cieco silenzio della distruzione. Quindi, l’emozione degli ultimi respiri, delle ultime lacrime, degli ultimi addii dal vapore di nebbia nella spenta sonorità del tessuto fonico, nella dolorosa onirica trasparenza della musica, In memoriam degli ultimi brandelli di ombre dissolte sulla filigrana di rarefatte sonorità, simulacri di voci sulla polvere della storia, sull’altare di un ultimo “rito” con il calice dell’addio offerto da Thanatos.

Tre anni più tardi, nel maggio del 1948, nel coatto ritiro di Montreaux, incastonata tra i monti sulla riviera svizzera del lago di Ginevra, in una natura rimasta illesa dalle ferite della guerra e che vuole ancora sublimare nella musica i suoi colori, Strauss compone il Lied Im Abendrot [Al tramonto] su testo di Joseph von Eichendorff, il romantico poeta dei boschi, del chiarore lunare, delle voci misteriose e impercettibili della natura. È un Lied sinfonico, per voce e orchestra, di tendenza tardo-romantica; un elegiaco canto di trasfigurata, serena introspezione spirituale, creazione di confine di un intenso lirismo, che presto diviene nuovo “rito” della memoria di una vita, se non il riflesso del tramonto di un secolo.

Nel legame ancestrale tra creatura e creato, nella simbiosi tra l’artista e il suo cielo, il testo di Eichendorff, enigmatico e profondo, evoca il sereno, indolore congedo dal mondo, l’eutanasia consapevole dell’immortalità dello spirito nell’eterno respiro della natura:

Wir sind durch Not und Freude
gegangen Hand in Hand;
vom Wandern ruhen wir
nun überm stillen Land.

 Rings sich die Täler neigen,
es dunkelt schon die Luft;
Zwei Lerchen nur noch steigen
nachtträumend in den Duft.

 Tritt her und lass sie schwirren,
bald ist es Schlafenszeit;
dass wir uns nicht verirren
in dieser Einsamkeit.

O weiter, stiller Friede,
so tief im Abendrot!
Wie sind wir wandermüde.
Ist dies etwa der Tod?

[Abbiamo attraversato, mamo nella mano, il dolore e la gioia; ora ci riposeremo del nostro cammino su questa terra silenziosa. Tutt’intorno si oscurano le valli, anche l’aria si fa scura; due allodole si alzano in volo per sognare, nei profumi, la notte. Vieni qui, lasciale volar via, presto sarà tempo di dormire; non perdiamoci in questa solitudine! Oh pace, vasta e silenziosa, così profonda nel rosso della sera! Siamo così stanchi del cammino! È forse questa la morte?].

Strauss, poeta del suono, vi coglie l’incanto, il calore del silenzio, il profumo della solitudine, il canto di Natura che offre il volto al colore della sera, e li stempera nei toni timbrici di un’orchestra dalla compagine sinfonica, utilizzata in dimensione cameristica per esaltare l’iridescenza dei suoni. I contorni del paesaggio, della verde polifonia di una natura sfumata sulle lontane cime dei monti, diviene “volo”, ampio e cromatico, a introduzione della lenta, sofferta declamazione dei versi iniziali, specchio lirico della voce dell’anima.

L’iridescenza del tessuto sonoro avvolge anche la valle, distesa nel profumo della sera, tracciando il solco in cui si insinua il trillo delle allodole, leggiadri messaggeri tra terra e cielo, Naturlaut su orizzonti invisibili, sull’accettazione commossa di un destino su cui sta calando il volto della notte. Nella voce del violino solo, l’incanto della nostalgia, l’ultimo slancio di un’anima evocante antichi attimi di felicità, indugiati sui morbidi sentieri della vita prima del grande congedo.

Sulla vasta solitudine poetica della terza strofa, la delicata scrittura strumentale e la declamazione lenta e sofferta del canto spargono il colore di Hypnos e Thanatos. La bellezza sembra coincidere con la rinuncia alla vita, con l’anelito al sonno che prelude la morte, con una malinconia rarefatta di ricreata armonia, nella quale traspare appena l’ultimo dolore. 

La Stimmung meditativa dell’ultima strofa assume toni sempre più spenti. Un lento canto di straniamento sovrasta la magia sonora, l’estasi silenziosa e profonda distesa su un confine ignoto ma desiderato, sullo svanire di vibrazioni sempre più rarefatte… sul dolce morire lontano dalla morte, nell’incanto del silenzio. Ogni volo si inabissa nel registro grave. Il tempo congela lo spazio. Si spengono gli ultimi ricordi. Solo Natura continua il suo canto, estatico, eterno, alto sugli orizzonti invisibili di un’eternità che le appartiene.

Tra luglio e settembre dello stesso anno Strauss comporrà altri tre Lieder su testi di Hermann Hesse – Frühling [Primavera], September, Beim Schlafengehen [Addormentandosi] – riuniti poi insieme a Im Abendrot nel ciclo dei Vier letzte Lieder [Ultimi quattro canti], ultimo lascito artistico del dolente viaggio di una lunga vita, testimonianza che qualcosa, forse, ancora resta sul profilo dei monti, nel rosso della sera… sotto i tigli di Berlino, oltre i cortei delle ombre… Una speranza, il profumo di una primavera, il sorriso di un’estate, la rugiada dei fiori, la notte stellata, il volo dell’anima, il canto notturno del menestrello sull’umbratile bellezza del Creato… sul silenzioso soffio della Vita.

tratto da Confini. Musica tra visioni e follia (Zecchini 2020)
www.zecchini.com