All’ombra delle foglie

Intermezzi: cortine di nebbia in mezzo al nulla, finemente decorate. Divisioni o vie fuga? Serie di immagini auto-felicitanti, interruzione, sospensione del dolore; o come scrive Leopardi, nel suo Elogio degli uccelli, “non travagliosa alienazione di mente”, “dimenticanza di se medesimi”, “intermissione, per così dire, della vita”. Tutto questo nel Brahms che ritorna al pianoforte: narratore metodico – dal polso fermo – di quello che rimane delle cose, dopo il loro accadere. Trattiene il respiro, per sgusciare lentamente la tastiera. Sembra, per chi non lo conosce, una scorta di suoni per l’inverno. 

La sua musica indica un oggetto, ma non riesce a manifestarlo, come una macchia rimasta in lontananza, che si compiace di tutto ciò che non può rappresentare. A labbra serrate, senza emissione di diaframma; questa musica che non vuole aizzare il presente, quasi in segno di rispetto, accarezza il tempo, piena di gratitudine. Immobili in una rassegnazione che non può divincolarsi, la ascoltiamo. Eppure, non siamo legati alla musica dall’attenzione per quello che essa può diventare – secondo uno “sviluppo” beethoveniano – ma per ciò che essa è già diventata; o ancora, ciò che essa è. Per vincere sul tempo, la musica di Brahms intuisce la necessità di un disarmo: una commozione che ci lascia liberi di fuggire – distensione – dal momento che non ci insegue. Senza il bracconaggio di speranze che finiscono nel disinganno, la sua musica non ci consegna a nient’altro che a ciò che è già stato. È ciò che è. Questa “staticità” parmenidea, più ideale che formale, è in verità un potenziale d’azione tra sé e sé, coesione essenziale; e non conosce slancio, come un ritmo chiuso perfettamente simmetrico. Perfino nelle Rapsodie e nei tumultuosi Concerti, non sembra esserci in verità nessun movimento decisivo. È piuttosto oscillazione su se medesimi, vibrazione nel fango, dove tutto, anche la forza più indomita si scarica. 

Nostalgia come messa a terra; nostalgia colposa, non colpevole – quella dei gravi che cadono al suolo; e nostalgia strutturale, come chiusura della frase alla stessa quota dell’esposizione tematica. Le melodie non si librano, né si involano. Si svolgono e riavvolgono con timidezza. Il pianoforte è un nido, e nonostante ciò, non ci consola: Brahms si limita – qui la sua grandezza – a testimoniare un’amichevole prossimità, quasi inanimata, che siamo soliti esprimere con il corpo; assestamenti, mormorii. È constantia: virtù di integrità e contegno della sua musica. Questa attitudine al conforto, prima della ferita, ha quindi poco a che fare con la rapida consolazione dei moderni; nella musica di Brahms, la disperazione di sé si accompagna alla cura di chi ascolta, tradendo una solitudine che si prepara alla luce, ma che rischia tragicamente di estendersi, nella perenne titubanza della preparazione, fino all’eternità. 

Nella nozione stessa di nostalgia si agita un’insolita contraddizione: a volte pensiamo la nostalgia come “ritorno”, a volte come “partenza”, e cioè sforzo per tornare. Ma la nostalgia brahmsiana non è soltanto emozionale: è sinonimo di necessità, e quindi necessità ripercorsa dal fondo. Sprofondare, lasciarsi andare e finire negli spazi di risulta – la costante di ogni vita – tra gli oggetti dimenticati, sottomondo: confronteremo le impronte che abbiamo lasciato nel fango, scambieremo la costante per l’essenza

Talvolta cerchiamo il ritorno, proiettandolo nell’avvenire. Ma Brahms, altero compositore di una musica umile, sembra dirci: “Tutto ciò che è umano è soggetto all’umana vanità” – vanità ostile che ci chiama nelle tenebre e “chiede soddisfazione”, a duello, reclama un “momento della verità”. Ma nelle sue parole vi è un contrordine: il Tutto non può essere nullificato. “Se calmo il mio spirito, Tutto diventa come la notte rischiarata dalla Luna. Se attacco in quell’istante so che non verrò colpito”. In queste parole dell’ex samurai Yamamoto Tsunetomo (1659-1721), ripensiamo a Brahms, che vince (giocando di strategia) il quasi-nulla della vacuità con il quasi-tutto della quiete, la noia con la calma, l’oscurità con una luce lunare che non è negazione dell’oscuro. La sua musica è fatta di “momenti della verità”: la certezza della vita che si sa viva, nel momento in cui scampa a morte certa. 

Ma il certo del conoscere (quiddità) si confonde – ironicamente – con il certo di qualità indeterminate. 

Il maestro coglie la contraddizione tra una nostalgia come retroazione freudiana – Nachträglichkeit –, che è apertura al futuro prossimo, e la nostalgia più pura, che è solo un lasciarsi andare di suoni, arretramento in ciò che è compiuto. Nostalgia che non ricorda nulla. 

Il passato è l’unico modo in-sé del nostro esserci – spiega Sartre ne L’Essere e il Nulla: il passato è “valore rovesciato”. Il futuro è invece “luogo di nascita del sé”, orizzonte da rincorrere o, spesso, bersaglio valoriale contro cui avventarci; inseguiamo la coincidenza al di là della nostra essenza, sempre oltre. Di nuovo, Brahms sembra opporre a una simile fuga angosciosa il segreto dell’in-sé come scivolamento nel passato, nell’Essere come “pienezza di sé”. Parrebbe trattarsi, pertanto, di una musica della rinuncia, per l’uomo come “asceta della vita”. Quella che in Brahms ci era parsa “staticità”, ci parrà, dopo Sartre, un lasciarsi cadere all’indietro, all’ombra delle foglierovescio del valore per cui viviamo –: musica in cui la nota successiva vibra in funzione della precedente, e non viceversa. Lungi dall’essere un’assurdità, questo paradosso ci parrà chiaro pensando alla struttura stessa dei dieci Intermezzi, contrapponendola al romanticismo dei Notturni, alle listziane Consolazioni e all’apprendistato transgenerazionale della liederistica. 

Gli Intermezzi (op. 76, 116-119), ma anche le Vier Balladen giovanili, non conoscono il librarsi del “bel canto” chopiniano, in cui la vocalità disinvolta del pianoforte riproduce il discorso umano, né il contorsionismo armonico di Liszt, capace di deformare lentamente il tessuto musicale, sottoponendolo a originalissime torture, tra la dolcezza e l’asperità tonali, che ne sfigurano il tono incantatore: dove l’Ungherese depone una serie di corali mutanti, un vociferare di preghiera, Brahms presenta spaccati musicali in cui nessuno canta; la voce che sentiamo assomiglia piuttosto al respiro che prendiamo tra le parole, timido esercizio di corde vocali. Ed è un respiro a suonare, una voce tutt’altro che soaring, incapace di canto e di discorso melici. Gli Intermezzi – e qui la distanza da ogni lied (perfino il caso limite dei Lieder ohne Worte) – non “comunicano”; l’intermezzo, già dal titolo, sembra rimandare al Tempo, e non all’Uomo con le sue parole. Concluderemo, perciò, che quella di Brahms è una musica senza l’uomo, uno “spettacolo senza spettatore”, che non desidera persuadere chi ascolta, né ammansirlo retoricamente? Forse, basterebbe ammettere che non è “voce”, ma misero suono, come presenza in persona del corpo emanante calore. Questa musica – diremmo in termini sartriani – “è ciò che è”, non come quella di Liszt che “è ciò che non è” (musica del futuro atteso), né quella di Chopin, che “non è ciò che è” (musica del passato ricordato): quella di Brahms è forse l’unica musica “sincera”, coincidente con sé. Un passato radicale, non rievocato, posto a margine del divenire, troppo sincero per arrischiare il passaggio nel non essere. Eppure la sincerità è, per la realtà umana solamente un’ideale. Secondo Sartre, “la coscienza, nel suo essere e contemporaneamente, è ciò che non è, e non è ciò che è”. La sincerità – essere ciò che si è – è per eccellenza, fenomeno di malafede, fuor che al passato, dove io sono al modo dell’in-sé, e quindi sono davvero sincero. Una musica come quella di Brahms, ridotta al minimo dell’accadere, per uno strano senso analitico, quasi tautologico, esprime scarsa aderenza al qui e ora: non riesce a manifestare l’oggetto, limitandosi a indicarlo nella sua sincerità, facendolo pertanto recedere a una inattingibile x. Al “nuovo” subentra paradossalmente l’”ignoto”, che la musica tenta di descrivere, scavando invano nelle sue stesse categorie. Il passato radicale – oggetto della nostalgia immobile, “traccia” frenata dalla commozione dell’autore – ha l’essenzialità in-sé dell’eterno, dell’intero e la consistenza dell’ignoto, dell’evento; insomma, del non vissuto.

Certo vi è anche traccia, in Brahms, di una qualche orizzontalità temporale, ma il compositore tedesco ha il dono di rappresentare i fatti dall’alto, dopo il loro accadimento; persino nei picchi più drammatici delle Sinfonie, o del Deutsches Requiem, egli rivela una musicalità anti-intuitiva, quasi inespressiva che ben si addice, nel giudizio storico, alla fin de siecle o al mito germanico, sospeso tra Otto e Novecento, di una “rivoluzione conservatrice”. Non vedremo mai nulla di nuovo nel dominio del vissuto – in Brahms, ma troveremo il presente nella sua interezza, ovvero ridotto a passato, fuori dalla propria vita; l’assurdo di una musica in cui non accade nulla, solo perché è “sempre troppo tardi”. E questo, in una forma che non si disperde, che si mantiene geometricamente al proprio interno: ricordo cosparso di buchi, scatola in cui lasciamo entrare l’aria. Illusione ora sublime, ora tragica di poter respirare sotto terra. 

Il costo della pienezza, di un presente non vissuto, è dunque la rinuncia alla politica delle res novae. Ma Brahms accetta il compromesso – accoglie fideisticamente la novità sotto le mentite spoglie dell’ignoto. Per lui non c’è, come invece era per Goethe, un certo attimo da fermare per la sua bellezza, che poi finisce per svanire, impotente dell’eterno: nella sua musica, anzi, l’attimo diventa bellezza poiché si è fermato. E qualunque attimo può essere fermato. La musica ama tutti i suoi figli allo stesso modo: li divora tutti o non ne divora nessuno. 

È una bellezza, ancora una volta, che stranamente possiamo spiegare con il modulo sartriano: “uno stato ideale del mondo, relativo ad una realizzazione ideale del per-sé, ove l’essenza e l’esistenza delle cose si manifesterebbero come identità con un essere che, in questo stesso manifestarsi, si fonderebbe con se stesso nell’unità assoluta dell’in-sé”. Per Brahms, l’unica bellezza possibile sembra essere quella al passato, manifestazione compressa, ma pur sempre sincera dell’in-sé già (e quindi già-da-sempre) realizzato. Perfino il futuro sembra scomparire nella sua musica, lasciando campo a una carezza, che non si spinge oltre ciò che è, mentre cerca l’avvenire: i fumi della partitura aderiscono alla pelle, a un essere tangibile sotto di sé: di nuovo, non arrischia lo sguardo esorbitante e beethoveniano che si approssima all’orizzonte. Si avvicina, semmai, a un orizzonte intermedio, vellutato, fatto di nebbia, come in certe tempere su tavola di Paolo Uccello in cui alla prospettiva (che dice come stanno le cose, in relazione) si antepone un generico gradiente di profondità (che si limita a indicare una gerarchia). È questo l’unico senso di futuro – indugio a volte fiducioso, a volte imbarazzato – come “una marcia verso l’invisibile”, termini con i quali il filosofo Lévinas abbozza per l’appunto una gnoseologia della “carezza”. 

“Nascondi le cose lontane” – sembra dire Brahms, “con la voce acuta e i lunghi capelli biondi”, un uomo che “pare ancora un bambino. Ha la bocca ben disegnata e uno sguardo serio e profondo”: “Nascondi le cose lontane / Che vogliono ch’ami e che vada! / nascondile, involale al volo / del cuore! Ch’io veda il cipresso / là, solo, / qui, quest’orto, cui presso / sonnecchia il mio cane”. È La nebbia di Pascoli: nebbia che è assieme limite e definizione, invocazione di una siepe leopardiana (“ch’io veda soltanto la siepe / dell’orto, / la mura ch’ha piene le crepe / di valerïane”) per poter immaginare e, a margine del mondo, concedersi il parto auto-felicitante dell’infinito, figlio bastardo e divino dell’indefinito. Eppure non possiamo fermarci all’attestazione di questo puntualissimo ritiro nelle presunte nebbie del passato: la natura della musica brahmsiana è più profonda. La sua costante insondabilità non è in fondo né quella dell’asceta, né quella dell’infante pascoliano; è amore, ma diverso dalla sua tipica espressione occidentale; è gratitudine introflessa, “amore segreto”; ci richiamiamo, in questi termini, a una lunga tradizione nipponica che forse vede nell’amore segreto – una malafede che è sincerità – il correlato sentimentale dello scontro samurai, in cui il guerriero si finge cosa (con la calma lunare e impallidente di ciò che è quasi-morto) per vincere il nemico e sopravvivere. “L’amore supremo è, io credo, l’amore segreto. Una volta esternato e condiviso, l’amore sminuisce. Languire tutta vita per amore, e morire d’amore senza mai invocare il nome dell’amato, o dell’amata, ecco qual è il vero significato dell’amore” (Hagakure, Annotazioni su cose udite all’ombra delle foglie; Libro II): invocazione musicale di una x

Pur astenendosi da qualsiasi biografismo crociano, è difficile non immaginare timidamente l’”amore nascosto” – non consumato – per Clara Schumann, trascinato nel corso di tutta una vita, almeno fino al termine della stesura della terza sinfonia: “anche un canto doloroso è nobile sulle labbra della persona amata” – verso schilleriano, che Brahms metterà in musica nella sua Nänie, op. 82. Tuttavia questa segretezza tradisce una vocazione intramontabile alla cantilena di labbra serrate, che il filosofo Jankelevich è stato solito chiamare “espressivo inespressivo”, e cioè un’esternazione intermediata dei propri sentimenti, che oscilla tra confessione e impersonalità. “Alla mia morte dal fumo conoscerai il mio amore, mai espresso e tenuto celato nel mio cuore” (Yamamoto Tsunetomo). Nella fumosità degli intermezzi riconosciamo l’amore di Brahms che, al centro della sua musica, convive con una insensata meditatio mortis post mortem (insieme anti-spinoziana e anti-hegeliana), che tenta in ogni modo di evitare il conflitto aperto di sé con altri e di sé con sé, poiché sa che, in entrambi i casi, non avrebbe la meglio. 

Il contrasto tra Hon’ne e Tatemae, ovvero tra sentimenti veritieri, desideri profondi e comportamento di “facciata” si risolve nella cura disperata di pochi affetti, celati agli occhi dei più, raccolti in una serra, in modo tale da ottenere, come dirà Quine in tutt’altro contesto, il “mondo più pigro possibile”: né il peggiore, né il migliore dei mondi possibili. 

“Questa sobrietà nel ricevere o questa parsimonia nel dare” – scrive Hegel – che “non si addicono alla scienza”, né al Geist, sembrano però adeguate all’ultima musica brahmsiana. Il suo orecchio musicale opera in segreto. Laddove il “colpo d’occhio” leopardiano avvantaggia il poeta nella conoscenza per intero della natura, l’orecchio – non meno intuitivamente – sembra invece scomporre: riconoscere voci nel flusso dei suoni; anche una sola nota, da custodire gelosamente. In segreto, anche il nulla è sufficiente alla felicità.