Musica e Filosofia nel pensiero dell’Africa nera (seconda parte)

L’Orchestra Balafon
Prendiamo ora un’orchestra Balafon. Cinque xilofoni e poi strumenti a percussione come tam-tam, bong e tamburi di varie dimensioni – il complesso è costituito da almeno dieci strumentisti.
Quando lo strumento che guida la melodia ha indicato il tema, tutti gli altri lo seguono, ma ognuno con il proprio ritmo, anzi, con la propria melodia. Intorno all’onda rafforzativa del tema principale  ogni strumento sviluppa una propria linea; tutte queste linee, curve e onde si sovrappongono, s’incrociano, si rafforzano, tornano di tanto in tanto all’onda del tema principale o costituiscono con essa un comune punto d’intersezione. Questo punto di intersezione riporta l’intera  orchestra a un accordo, e tutto ricomincia da capo. Ma a questo punto, si può  anche interrompere  bruscamente tutto il complesso, e allora tacerà improvvisamente sulla stessa nota e sulla stessa battuta.

Come è evidente, anche qui sussiste, all’interno di un modello prestabilito, la possibilità di scegliere il proprio ritmo, di far nascere ritmi nuovi, la possibilità come base della libertà creativa dell’artista. Viene scongiurata una logica a mo’ di quella circolare che preclude l’esistenza di altri ritmi. Al contrario, all’interno di un modello prestabilito si apre la possibilità di scegliere il proprio ritmo, possibilità come base della libertà creativa dell’artista.

Dal momento che l’arte africana rifiuta il determinismo della natura, rifiuta anche di copiare la natura; in altre parole, ciò sta a significare che l’arte africana non è ritrattista, ma è un’arte creativa, in cui l’uomo esprime come meglio crede se stesso e la natura.

Suono e Pensiero
Abbiamo visto come l’arte dell’Africa nera cammina con ogni forma artistica.  Prendiamo la filosofia come l’ars recte iudicandi. L’analisi delle onde per esaminare simboli ed elementi decorativi, ci porta a una legge molto importante. Ed è: nelle arti tridimensionali l’artista ricrea la natura sottoponendo i propri soggetti a una quadruplice trasformazione:

1°: l’oggettivazione: – è il momento  che considera l’oggetto nel suo stato naturale.

2°: l’astrazione – è il momento che coglie l’oggetto nelle sue note essenziali.

3°: Dall’essenza dell’oggetto  l’artista trae il motivo, che diventa simbolo.

4°: Dal motivo e dal simbolo l’artista delinea un nuovo universo,  una composizione artistica.

Questi quattro punti sono le radici della struttura fondamentale della creatività artistica dell’Africa nera, ma anche le radici della struttura fondamentale della nostra antropologia e dunque del pensiero africano nero. Anche la struttura fondamentale del pensiero africano, trova in questi quattro punti la sua ragione d’essere e il suo fondamento.

Tentiamo di illustrare dunque queste basi. Procedo,  con un esempio pratico. Prendo una sedia. La faccio vedere a un gruppo di persone (la chiamiamo ‘sedia 1’). Poi la tolgo di vista. Quel gruppo di persone, che ha visto la sedia  con i propri occhi, una volta tolta di vista la sedia, ora non la vedono più. Ma ce l’hanno presente nella propria mente (chiamiamola ‘sedia 2’). Dalla ‘sedia 2,’ i loro rispettivi  intelletti colgono le note essenziali e hanno non la sedia vista; non la sedia trasportata nella mente; ma  la sedia in generale, il concetto (‘sedia 3’). Adesso, davanti a questo gruppo di persone io dico una frase del tipo: “la sedia ha quattro gambe”. Domanda: nella detta  frase, a che sedia mi riferisco? Sicuramente, non la n.°1; non la n° 2, ma viene richiamata la sedia 3. 

Nei quattro punti sopra enumerati, il quarto  segna il momento della composizione, ossia il momento in cui il punto tre va a incontrarsi con le ‘sedie’ che stanno in giro e riconoscendoli come tali le chiamerà sedie. 

Il passaggio dalla sedia 3 alla sedia 4, ovvero il momento della composizione diventa un momento intrigante. In questo passaggio, il linguaggio simbolico africano è profondamente diverso da quello occidentale, orbitante attorno al principio logico-razionale del Terzo Escluso. Secondo questo principio del pensiero occidentale, “una  cosa o è o non è, la terza via è esclusa.” In altre parole, il principio stabilisce che «questo» può significare solo «questo» e non «altro»: non si ammette assolutamente che insieme a «questo» vi possa essere «un altro» a condividere la misteriosa appartenenza e dipendenza che lega la realtà all’Arcano. In questo, la logica formale occidentale diverge profondamente anche dalle recenti conclusioni cui è pervenuta la fisica occidentale delle alte energie (Cfr. F. Capra, 1989).

All’Africano nero, invece,  è estranea la rigidità del principio del Terzo Escluso, in quanto nulla gli consente di eliminare valenze multiple riguardante la stessa realtà; anzi, dall’Arcano gli giungono continuamente sollecitazioni nel senso opposto di una contiguità, di una “ibridazione” che impedisce univocità nelle definizioni e nell’accoglimento dei significati. Il pensiero africano nero si apre alla fluttuazione dei significati e allo slittamento dei sensi concettualmente diverso. Fluttuazione e slittamento che formano l’intreccio ritmico alla base del quale sta il genio creativo dell’africano nero.

Il Principio occidentale del Terzo Escluso è quello che storicamente ha contribuito a rendere poveri i popoli che gli occidentali andavano trovando nelle loro conquiste. Gli occidentali, in effetti, dove arrivavano, non trovando la sedia come quella che avevano nella loro mente  hanno detto che quei popoli non avevano sedie… Come se quei popoli fossero vissuti sempre in piedi. Così scattava la molla dello zelo di portare le sedie a questi popoli, zelo che si tradusse poi in paternalismi, colonialismi, senso di superiorità culturale, con le loro drammatiche conseguenze materiali e psicologiche.

Quindi prima di essere impoveriti economicamente, quei popoli venivano impoveriti antropologicamente, nel loro essere. Si può ora capire più facilmente la conclusione a cui giunge Serge Latouche, già Docente di Sociologia all’Università di Parigi XI, che alla conclusione delle sue ricerche scientifiche  sul campo in Africa, scrive:

La povertà economica – in Africa – è proprio un’invenzione occidentale, non solo perché ha creato nuovi bisogni materiali senza soddisfarli ma perché l’intrusione dell’Occidente ha toccato il sistema di valori che sottendono le pratiche sociali dei tempi antichi. (1997, 141).

Civiltà del segno e civiltà del simbolo
Il principio del Terzo Escluso ci porta alla distinzione del pensiero occidentale dal pensiero negro-africano. Il pensiero occidentale si esprime attraverso segni, mentre il pensiero negro-africano si esprime attraverso simboli. La civiltà del segno prende il linguaggio come significante in se stesso, grazie alla sua grammatica, alla sua sintassi, alle sue regole logiche. Il senso non è al di fuori delle parole, ma è nel loro reciproco coordinarsi.

La civiltà del simbolo invece vede in queste stesse parole l’espressione di ciò che è dall’altra parte del reale, e dal quale comunque il reale trae tutta la sua realtà.

In tutto ciò che gli è davanti ai suoi sensi, l’Africano vede altro rispetto a ciò che vede. Egli decifra l’Altro, cioè li sacro, attraverso il minerale, il vegetale, o l’animale. Non è la parola dell’uomo che significa e circoscrive gli oggetti; sono gli oggetti o le cose che sono ‘parole’ per l’Africano. Ecco perché nel pensiero africano non c’è posto per il principio del Terzo Escluso. Roger Bastide scrive: “per noi – occidentali –  il mondo  non è più altro che una lingua ben fatta, opera dell’uomo e non più parole dette dalle cose, un insieme di segni legati da regole fisse”. Nel pensiero occidentale, il concetto astratto detta le sue “legge” sull’oggetto che  egli vede. E quindi questo stesso oggetto, concreto, storico, situazionale rimane folgorato da un “essere” astratto. Quando si studia la Filosofia, questo ramo di scienza lo troviamo esposto nel libro di Aristotele, intitolato Secondi Analitici. Libro che ha stabilito il metodo di fare scienza non solo alla Filosofia ma anche alla Teologia della Chiesa Cattolica. E se qualche ‘spazio di libertà’ viene concesso all’oggetto, tale spazio  è iscritto in un ambito particolare di riconoscimento, chiamato  “epicheia”; e  “casistica”. In entrambi i casi comunque suonano come eccezioni che confermano la regola, cioè l’irruenza e virulenza del concetto astratto sulla realtà storico-concreta situazionale.

Si potrebbe dire che siamo nell’astratto  e quindi in un contesto umano e provvisorio.

Sta di fatto che a quest’astrazione logica che abbiamo appena descritto si aggiunge un’altra astrazione fondamentale: quella sociologico-storica. Fondamentale, perché è spietata, velenosa e assume l’incarico di inoculare il veleno all’astrazione logica che di per sé sarebbe innocua, in quanto, appunto, momento umano necessario e provvisorio.

La prima fase dell’astrazione sociologico-storica procede dalla sua oggettualità: il soggetto rimane al di fuori del sistema. La verità gode di propria sostantività; si autoconvalida, diventa  autonoma e indipendente dall’uomo. Anzi, l’uomo si trova egli folgorato dall’oggetto.

Tuttavia, l’oblio del soggetto non è potuto essere assoluto. Ciò che di fatto  è storicamente accaduto finora è che alcuni uomini qualificati e privilegiati, avvantaggiati su tutti gli altri, hanno esercitato, da soli, la possibilità umana della verità e così, all’interno di una situazione sociale di disuguaglianza, l’hanno introdotta nella storia. Però l’hanno introdotta nel contesto socio-storico come confinata e relegata nell’ambito dei privilegiati.

Il resto degli uomini, tutta l’altra gente, la classe cioè dei lavoratori, manovali, quelli che secondo Aristotele sono nati con il ‘dorso curvo’, non soltanto rimangono  senza la possibilità di fuggire dalla noia di un lavoro fisico oppressore, ma anzi sono considerati estranei alla verità e praticamente ne sono esclusi (Politica I,5).

Per l’Africano nero l’immagine non è un’immagine-segno, che trasmette un’entità astratta o un surrealismo empirico, ma un’immagine-analogia, un surrealismo mistico dove l’oggetto non significa ciò che rappresenta, bensì ciò che suggerisce, ciò che crea.

L’immagine da sola, però, non produce alcun effetto se non viene scandita in quel movimento dinamico e ordinato che è il Ritmo. Esso è la forza che ci possiede alla radice del nostro intimo. La vibrazione del nucleo incandescente di ogni essere.

Kunta aveva l’impressione che il ritmo del tamburo gli vibrasse non solo nelle orecchie, ma in tutto se stesso. Quasi senza accorgersene, come in sogno, senti che il corpo cominciava ad agitarsi  e le braccia prendevano a muoversi al ritmo; ben presto si trovò a saltare e a urlare insieme agli altri che era come se avessero cessato di esistere. Infine barcollò e cadde a terra esausto. (Alex Haley,  1978, p. 36).

Il ritmo che illumina lo spirito
Oggi possiamo dire che il ritmo di matrice africana domina la  musica del pianeta, ma è un dominio scomodo, perché è reso possibile dalle logiche di mercato occidentali che filtrandone ogni possibilità  “trasgressiva”, utilizzano la sua forza percussiva per sostenere soprattutto musica di qualità scadente ma di facile comprensione, in ogni angolo della terra.

Nei secoli passati la musica, racchiusa nei Negro Spirituals, sosteneva le lotte contro lo schiavismo, in Africa, in Brasile e in America, costituendo l’unica vera matrice esistenziale che ha tenuto uniti i neri alle proprie tradizioni ancestrali. E su questo varrebbe forse la pena di ribadire che “tradizione” per il nero africano non significa “passato”, esattamente come “progresso” non significa futuro. Se una pianta viene separata dalla sua radice, muore, semplicemente. Ebbene, le radici non possono essere definite come il “passato” della pianta. Le radici esistenziali dei neri africani, sono le ragioni della loro stessa esistenza e di quella della loro comunità: suonare un tamburo dopo aver percorso migliaia di chilometri in una stiva, verso un nulla che poi si è rivelato un inferno risuonante di incomprensibili latrati, è chiamare le proprie radici, è sentire le proprie radici che rispondono, nonostante tutto. Il futuro, il progresso, non c’entrano nulla.

Gunther Schuller ha scritto che nel sistema di vita del nero africano, le parole e i loro significati sono collegate al suono musicale. Una musica strumentale  indipendente  dalle funzioni verbali, nel senso della musica assoluta europea, è quasi completamente  sconosciuta all’indigeno africano. (…) Fondamentalmente, il linguaggio funziona solo se congiunto col ritmo. Tutta l’attività verbale,  che sia nella vita sociale quotidiana o nella religione o nella magia, viene ritmicizzata. E non è una pura coincidenza che le lingue e i  dialetti del nero africano siano in se stesse una forma di musica, spesso sino al punto che certe sillabe possiedono particolari intensità, durate, e anche livelli di acutezza (G. Schuller, 1968, p.5).

Pur cogliendo il sintomo, potremmo dire, il medico non ha saputo fare la diagnosi, perché a tutta la precedente disquisizione manca il punto centrale, attorno al quale si incardinano la Parola, il ritmo, la conoscenza del nero africano: la duplice valenza del reale che, però, non genera alcun tipo di schizofrenia, di frattura, di scissione per l’uomo che la vive.

Quando i Dogon, cula dei Bantu, parlano dei loro tamburi, dicono che appartengono a “otto famiglie”, e non è un’imprecisione di linguaggio, non intendono dire “classi” o “tipi”, ma proprio “famiglie”, nuclei di generazione, nuclei evolutivi che mantengono e trasmettono senza commettere troppi errori, il proprio codice genetico. Ebbene. Queste otto famiglie hanno una “voce”; ciascuna ha una voce diversa, dal piccolo tamburo al grande.

La voce è del tamburo e il suonatore si pone come un medium tra la Grande Parola e l’orecchio degli astanti. Chissà quali tremende invettive sgorgavano dalla grande bocca dei tamburi quando a farlo parlare erano gli schiavi neri in America, quali bibliche maledizioni grandinavano sui tiranni, specie al calar della notte, quando ogni rumore sembra amplificato dal buio e dal silenzio.

A mo’ di conclusione
Nell’opera sopra citata, Engelbert Mveng ricorda che chiunque abbia  avuto a che fare con le lingue africane conosce l’indissolubile legame esistente tra la parola parlata, il canto e l’orchestra. In molte regioni africane sono i toni e l’altezza del suono specifici di una lingua a determinare anche la musica, le scale musicali di quelli che parlano questa lingua. La parola parlata e cantata si forma con la bocca, ma anche i tamburi obbediscono allo stesso ritmo con gli stessi intervalli del suono.

C’è dunque una continuità e una corrispondenza tra il ritmo delle parole, del canto, degli strumenti musicali, dei gesti, della danza, della pittura,  del corpo, dell’abbigliamento, delle maschere, dell’architettura, degli entravi e delle porte intagliate, del modo di festeggiare le stagioni; i ritmi del raccolto e della semina, della nascita, dei riti di iniziazione, del matrimonio, del lavoro delle generazioni che si alternano e dei morti, posti nella terra come un seme che germoglierà. La necessità assoluta del ritmo nasce per i neri dalla consapevolezza che anche  le scansioni vitali innate, e l’ondeggiare continuo per la vita, parlano il linguaggio dell’Arcano, nascono altrove, abitano in noi e ci tengono in vita come l’energia immagazzinata dalla corda pizzicata, che continua a vibrare anche dopo essere stata lasciata dalle dita. 

 

Nota bibliografica

ARISTOTELE, Secondi Analitici, Laterza, 1982.

ARISTOTELE, Politica, L. I,5., Laterza, 1983.

BASTIDE, Roger, Réligions africaines et Structures de Civilisations, in Présence Africiane, n°66, 2° sem. 1968.

CAPRA, Fritjof, Il Tao della fisica, Adelphi, 1989.

GRIAULE, Marcel, Dio d’Acqua, Bompiani, 1968.

HALEY, Alex, Radici, Rizzoli, 1978.

HEGEL, Georg Wilhelm Friedrich, La Filosofia dello spirito, UTET, 2014.

LATOUCHE, Serge, L’Altra Africa. Tra dono e mercato, Bollati Boringhieri 1997.

MIGUEL, Pedro F., Honga. Per un’antropologia africana, La Meridiana, 1990.

MIGUEL, Pedro F.,, Muxima. Sintesi epistemologica di filosofia africana,  Edizioni Associate, 2002. 1990.

MVENG, Engelbert, in Imparare dall’Africa. Cittadella editrice, 1985.

NDAW, Alessane, La Pensée Africaine. Recherches… Les Nouvelles Éditions Africaines, 1983.

SCHULLER, Gunther, Early jazz, Oxford University Press, 1968.