Propaganda e sabotaggio a Hollywood e a Mosca | Il caso di due opere metacinematografiche di regime (prima parte)

Abbiamo l’onore di ospitare, all’interno della rubrica Filosofia dell’interpretazione, “Propaganda e sabotaggio a Hollywood e a Mosca. Il caso di due opere metacinematografiche di regime”, in due puntate.

Sono lieta e onorata di questo prestigioso apporto di cui ringrazio Alessio Bergamo, il magnifico autore, pedagogo teatrale, filosofo e grande studioso, tra l’altro, del teatro sovietico, e naturalmente il Maestro Bruno Dal Bon.

Profondamente persuasi, come siamo tutti, della necessità di un dialogo fecondo tra arti performative differenti, abbiamo qui copioso materiale di riflessione e apertura: il film dentro il film; il concorso del pubblico nella vicenda teatrale e nella trama; la manipolazione dello sguardo; il potenziale deflagrante dell’arte, cui forse non si concede la giusta dose di coraggio e di ascolto. Infine, la politica nell’arte teatrale e performativa, cui è bene riservare un occhio maturo e responsabile: essa è difatti “presente”, e attiva in ogni scelta: rinvenibile non solo nel suo assetto di sintomo, denuncia, adattamento, ma possibile anche in una veste messianica, che nell’arte, e nella riflessione sull’arte, crea il futuro e getta un arpione lontano, verso nuova “polis”.

 

Margherita Anselmi

 

A metà maggio del 2021 sono stato invitato dalla prof. Margherita Anselmi, che ha letto qualche mio testo (in particolare lo studio su Marija Knebel), ad intervenire ad una tavola rotonda che vedeva oltre alla sua e alla mia partecipazione, quella di altri due studiosi di teatro (Salvatore Cardone ed Enrico Piergiacomi) e che aveva per tema: Interpretazione e politica.

Sono un regista, pedagogo e studioso di teatro, con una qualche specializzazione nella storia del teatro russo e nella teoria teatrale di Stanislavskij e di diversi suoi allievi e seguaci. Ho quindi competenze meno vaste ed eroiche di quelle che sarebbero necessarie ad affrontare questo tema e una mia riflessione non può che essere impressionistica, asistematica e, in definitiva, empirica e opinabile.

Tale tipo di riflessioni ho fatto durante questa tavola rotonda. Margherita Anselmi mi ha detto che le pareva potesse essere di qualche interesse per A due voci metterle per iscritto, in particolare con qualche riferimento alla questione nella Russia sovietica.

Ringrazio A due voci per l’interesse dimostrato e provo a scrivere dando preventivamente al lettore la misura esatta dei limiti del mio intervento con questa premessa e avvertendolo che sono corso ai ripari di fronte all’ampiezza enorme dell’universo che mi si apriva, circoscrivendo questo articolo ad una riflessione rapsodica che spero possa essere di qualche stimolo ma che non può avere neanche lontane pretese di esaustività scientifica.

L’assunto su cui baso questa riflessione è che le opere cinematografiche o teatrali per la natura specifica di queste arti[1], siano di fatto sempre funzione di politica. Tutte le opere di queste arti sono segnate da una politicità oggettiva. Nel caso in cui questa funzione sia cosciente e perseguita da parte dell’autore, potremmo parlare di politicità anche soggettiva.

Dove per funzione politica intendo un atto che entra in connessione con la vita della polis. Sia dal punto di vista concreto che da quello della formazione della mentalità, delle culture e delle ideologie che a questa concretezza danno fondamento teorico e mitico e/o che intrecciano e adattano tradizioni e consuetudini culturali a (nuove) necessità strutturali della società.

Per avere una funzione politica non è necessario che l’opera inneschi una dialettica con la condizione politica oggettiva di cui è espressione. A questo fine è però indispensabile che essa crei un ponte (o si collochi lungo un ponte già creato e frequentato) con il luogo/contesto nella quale si manifesta (o con alcuni suoi settori). Dalla necessità che si crei questo ponte sono determinati i suoi procedimenti produttivi.[2]

Sono questi procedimenti produttivi e il legame che si stabilisce tra loro e il determinato luogo/contesto a cui sono connessi, a determinare l’incidenza dell’opera sulla vita della polis.

Gli autori delle opere, dal punto di vista personale, possono anche non concordare con l’effetto politico oggettivo determinato dal legame tra procedimento produttivo e luogo/contesto che caratterizza le loro creazioni. Ma anche volessero prenderne le distanze, criticare con il “contenuto” dell’opera l’ideologia che si nutre di quell’effetto, o quel legame, o quei procedimenti, o infine quello stesso effetto (ammesso e non concesso che gli venisse permesso di farlo), è quasi impossibile o comunque rarissimo che riescano ad essere efficaci nel loro intento. Perché possano avere qualche speranza di riuscirci, deve avvenire un cambio del rapporto tra luoghi/contesti e procedimenti produttivi nei quali operano. In caso contrario la loro critica, la loro presa di posizione politica è destinata a stemperarsi, a perdere di qualsiasi incisività in forza del valore politico preponderante che rispetto alla loro volontà personale ha il legame tra luogo/contesto e procedimento produttivo all’interno del quale ha preso corpo la loro creazione.[3] Per capire la forza di determinazione che questo legame ha sulla creazione dell’artista è sufficiente immaginarsi quale carica oppositiva (cioè nessuna) potrebbe mai avere un’opera lirica prodotta oggi al Teatro alla Scala che esalti l’azione rivoluzionaria di Mao. O piuttosto ricordarsi del film Reds di Warren Beatty.

Spesso, nel corso della storia, cambio di procedimenti produttivi e individuazione di nuovi luoghi/contesti della performazione hanno coinciso con l’attivarsi di una dialettica politica nella società, con evoluzioni della sua struttura sociale. Il fatto che non di rado nelle teorizzazioni degli stessi artisti queste innovazioni siano state considerate come qualcosa di inerente la “poetica” e non la “politica” è naturale, perché con queste innovazioni l’artista interagisce con le armi della sua sensibilità personale e della sua fantasia. Checché ne dica l’artista, però, la storia ci dice che in questi casi l’arte assume sempre, agli occhi dei luoghi/contesti  di nuova formazione con cui va a interloquire, forti e nuove valenze politiche e sociali. Ed è corretto, perché è questo cambio stesso che è connesso ad una nuova funzione politica.[4]

Come si scriveva sopra, però, non è necessario che ci siano soluzioni di continuità, rotture o cambi di processi produttivi e/o di individuazione di nuovi luoghi/contesti della performance perché un’opera abbia una valenza politica. Infatti, si scriveva, la totalità delle opere ha una funzione politica. Ma vale la pena aggiungere due cose. La prima è che la loro stragrande maggioranza è politicamente del tutto allineata al contesto sociale per il quale è nata ed è conforme alle modalità produttive in auge presso quel contesto. La seconda è che la politicità di tali opere è tanto più forte quanto desoggettivata, anzi assolutamente inconscia, considerata come fosse un dato naturale e, paradossalmente, apolitico. Sono opere, come dire?, di “propaganda naturale” per la struttura sociale vigente e il regime politico che la garantisce.

Tra le molte varianti di questi rapporti ce ne è anche una particolare, in cui la soggettivazione politica dell’autore trova spazio grazie alla creazione nell’opera di un doppio piano segreto, o comunque di non immediata lettura. Doppio piano che va a creare un ponte tra l’opera e un ulteriore luogo/contesto contenuto all’interno del luogo/contesto principale. Questo tipo di operazione, che in genere assume un sapore sedizioso e sovversivo, è tipica di creazioni che nascono all’interno di legami tra processi produttivi e luoghi/contesto che sono così forti, così saldamente strutturati, così rigidi, così totalizzanti e controllati che potremmo facilmente utilizzare per il tipo di opere che generano l’allocuzione di “opere di regime” o “di propaganda”

Di alcune di queste ultime due varianti (l’opera ‘naturalmente’ di propaganda e quella di propaganda che invece contiene al suo interno una sedizione) scriverò in questo articolo.

In quanto italiano ovvero occidentale, ma al contempo anche conoscitore, sia pur superficiale, della cultura russa e sovietica, farò qualche gioco di confronto tra i due regimi e le loro ideologie (ben cosciente che qualche lettore obietterà che di regime e di ideologia ce ne era una sola, confermando con ciò che l’ideologia liberale e capitalista lo ha così totalmente pervaso da non permettergli neanche di ipotizzare che essa non sia il “naturale” corso delle cose).

Ci sono in occidente apparati del settore produttivo artistico che sono di rilievo e centralità particolare in una società, in quanto convogliano sforzi economici e organizzativi, investimenti di particolare caratura ed hanno una grande potenza di incidere sulla politica, ad un ampissimo arco di livelli. Si tratta, per capirci, delle grandi produzioni hollywoodiane, dei film destinati ai grandi incassi perché raccolgono le stelle più amate e famose. Le opere prodotte da questi apparati in genere, proprio per la loro centralità e per le complessità produttive che comportano, non possono sfuggire all’obbligo di essere vettori dell’ideologia dominante delle società che li produce (società in senso lato e nel senso più stretto di “ditta”). Sono oggettivamente ideologici, pure senza sforzarsi di fare propaganda e a volte addirittura a fronte di un “contenuto” dell’opera che strizza l’occhio a posizioni politiche antitetiche a quell’ideologia.

Facciamo qualche esempio. Il costosissimo blockbuster Avatar (Usa, 2009, regia di James Cameron) è la storia della guerra di alcuni nativi di un pianeta alieno contro i colonizzatori umani guidati da una compagnia mineraria che vuole ottenere ingenti profitti dall’estrazione di minerali presenti nel sottosuolo del pianeta, estrazione che ne comporterebbe la distruzione dell’ambiente naturale. I nativi alieni ricordano i nativi americani per il loro rapporto panteista e spiritualista con l’ambiente che li circonda e, come la disneyana principessa Pocahontas, vivono raccolti attorno ad un enorme albero magico. Il protagonista è però un umano paralizzato che guida a distanza attraverso i suoi impulsi nervosi un suo avatar, esteriormente identico ad un nativo alieno (e cioè molto bello: colorato di blu e oro, con tratti del volto vagamente felini, alto più di 3 mt, superperformante, ecc.). Questo umano, che in teoria dovrebbe fare gli interessi della compagnia mineraria, entrando sempre più in contatto con i nativi, diventa uno di loro si rivolta contro gli umani, riesce a dominare un animale enorme che abita quel pianeta (una sorta di mega-rapace) diventando così il capo dei nativi, li conduce in battaglia sino alla vittoria finale sugli umani e infine abbandona il suo corpo umano per identificarsi definitivamente con il suo avatar alieno (non senza aver ritrovato anche l’amore, con un’aliena, e la possibilità di praticarlo con prestazioni, si suppone, più avvincenti di quelle che poteva avere in quanto persona immobilizzata dalla paralisi).

L’opera sembrerebbe profondamente politica e a tinte prevalentemente liberal/progressiste. La fiaba si connette fortemente a temi presenti nell’attualità: il rischio della distruzione dell’ambiente, la brutalità omologante quando non genocida dell’azione dei grandi interessi sulle culture locali e più povere, e sull’ambiente. I temi sono connessi ad un certa sensibilità ecologista, ad una tendenza alla condanna morale dell’avidità e dell’assenza di umanità che essa spesso comporta, ad un certo libertarismo insofferente delle costrizioni societarie connesso alla vita nella natura, libertarismo che tocca corde profonde degli americani e degli australiani – paesi di residenza delle produzioni del film-, ad una certa nostalgia verso una purezza e spiritualità primitiva che viene proiettata sui nativi, ad un certo senso di colpa nei confronti dei nativi americani – e al tempo stesso all’orgoglio di riconoscerli come progenitori, come primi abitanti delle terre dove ora gli americani abitano, come ispiratori dell’amore per la natura dell’America.

Se questa è la superficie, c’è da dire che il vero portato ideologico è tutt’altro. Gli enormi investimenti, le nuove tecnologie impiegate nella ripresa, lo fanno rientrare a pieno nella categoria dei colossal hollywoodiani. E in forza di questa appartenenza si modellano obbligatoriamente i pesi e contrappesi della storia. L’aspetto fondamentale è sempre lo stesso: il fatto che la storia sia una storia di individualità, di persone la cui azione è modellata sul principio homo faber fortunae suae il principio base dell’ideologia americana, quella del self made man, del sogno americano. Ci sarà UN eroe, questo eroe sarà un uomo americano, e sarà lui diventato leader grazie al suo coraggio e alla sua forza di volontà che determinano interamente la sua capacità di capire, di muoversi e di agire al di fuori e al di sopra di tutti i condizionamenti, a guidare la rivolta e vincere la battaglia. Sarà quest’eroe l’unica chance di salvezza dei buoni contro i cattivi. Sarà lui a determinare pienamente la sua vita, tanto da abbandonare il suo corpo (invalido, limitato) di umano per diventare uno splendido nativo alieno. Anzi per diventare il capo di tutti i nativi (una sorta di riproposizione del mito conradiano del capitano Kurtz).

Altrimenti detto, il meccanismo di produzione e di investimento di un colossal hollywoodiano genera delle regole quasi totalmente inderogabili. Queste regole hanno in sé un’ideologia funzionale che spesso transita a prescindere o anche in contrasto con il contenuto esposto dell’opera. In un’opera la cui trama esalta un mondo primitivo, in stretta connessione con la natura e comunitario, l’eroe principale è un individuo così tecnologico da vivere da invalido, immobilizzato, in un corpo non suo che assume mediante la tecnica un corpo di una potenza sovrumana (il sogno di ogni leone da tastiera), che diventa il commander in chief di tutta la comunità, comunità alla quale, peraltro, è alieno (colonizzatore a sua insaputa, verrebbe da dire).

L’ideologia individualista americana trova il suo modello strutturale di elezione in quello che Szondi, richiamandosi a Brecht, definisce “dramma aristotelico”[5], modello che è alla base delle megaproduzioni hollywoodiane da diversi decenni e ammette rarissime deroghe.[6] Ne dà conferma la visione del celebre serial Breaking bad. La circostanza di partenza di quest’opera è che il protagonista, malato di cancro, non avendo un’assicurazione sufficiente a curarsi né i soldi per farlo, per procurarseli deve inventarsi prima produttore di droga, poi spacciatore e infine gangster, assassino (ma poi si scoprirà che ci ha preso anche gusto a fare il gangster superpotente). Guardando le prime puntate si rimane stupiti dal fatto che l’impossibilità di curarsi per mancanza di soldi non viene neanche messa in discussione, viene accettata come dato inevitabile della vita e non come condizione sociale degna di essere problematizzata[7]. (Dopo qualche puntata, invece, ci si abitua a questa circostanza come se fosse un’inevitabile e ovvia legge dell’esistenza, tipo la forza di gravità). Insomma neanche la barbarie suscita un momento di riflessione, perché tutta l’attenzione deve essere sul comportamento, sulle vicende del singolo, monade portante dell’ideologia capitalistica, unico responsabile dei suoi successi e insuccessi, con buona pace del contesto sociale, come si trovasse ogni volta da solo in to the wild. Anche Breaking bad, insomma, nella sua apoliticità e nel suo moralismo (il percorso del protagonista viene chiaramente deprecato in quanto criminale), veicola in toto l’ideologia del suo paese di produzione e del luogo/contesto a cui questa produzione è destinata e conferma che questa, come altre mega-produzioni di successo, ha la funzione di “divertire ed educare” le masse, per dirla con Orazio, all’etica del capitalismo (pur essendo basato su una sua contraddizione di fondo: quando ci si trova in condizioni sfavorevoli, come essere moralmente corretti e ligi alla legge [nella serie queste due categorie si sovrappongono totalmente e acriticamente] senza essere necessariamente dei perdenti?).

Di questa struttura che è ideologica, cioè politica al massimo grado, sia pur senza essere cosciente di esserlo, può essere buona testimonianza il fortunato trattato di recitazione della grande coach di attori hollywoodiani Ivana Chubbuck, che viene spesso anche in Italia a condurre delle masterclass.[8]

Basata, sostanzialmente, su alcuni presupposti della teoria stanislavskiana del lavoro sul personaggio, in particolare sul concetto di supercompito, ma condita con una notevole capacità di mobilitazione dell’emotività dell’attore in forza di associazioni psicologiche tra lui, le circostanze date in cui si trova il personaggio e gli obiettivi che lo guidano, l’insegnamento di Ivana Chubbuk ha una grande efficacia nel rendere organica, elastica, credibile ed emotivamente potente la presenza scenica e cinematografica dell’attore. L’idea è che comprese circostanze e obiettivi del personaggio, l’attore attivando alcune leve primarie della sua propria vita psichica analoghe a quelle che ha dovuto attivare il personaggio, può ricalcarne emotivamente e attivamente il percorso. La Chubbuck indica una serie di obiettivi che ritiene sostanzialmente esaustivi dei possibili percorsi comuni di uomini e personaggi:

“Queste sono a grandi linee le questioni umane universali che possono ispirare il viaggio di un personaggio per tutta una sceneggiatura, sia che si svolga nel corso di un giorno, sia che abbracci una vita intera. Esempi di validi Obiettivi complessivi che includono i bisogni primari dell’uomo sono: trovare l’amore; ottenere potere; essere amati incondizionatamente; avere dei bambini; sposarsi; essere amato dalla madre o dal padre; ritornare col mio ex; avere una carriera brillante; ricevere dei riconoscimenti; restare vivo; proteggere e tenere in vita l’amato.”[9]

Chiaro che l’efficacia di quest’impostazione lavorativa è connessa ad una visione del concetto di personaggio nella drammaturgia (e di ruolo della persona nel mondo), che è totalmente coerente con l’impostazione politica oggettiva del modo di produzione hollywoodiano. Concependo il rapporto tra attore e ruolo in questi termini, l’attore si mette totalmente a servizio di una cinematografia che potrà solo raccontare storie personali, individuali. Insomma Beckett e Pirandello ma anche Von Trier o Jarmush, per non parlare di Petri o Fellini, sono difficili da recitare a partire da quest’impostazione.

Quando si è all’interno di una struttura produttiva come questa risulta quindi improbo acquisire uno spazio politico soggettivo autonomo in cui l’opera possa acquisire una funzione politica che vada in dissonanza con l’ideologia obiettiva determinata dai procedimenti produttivi e dal loro legame con i luoghi/contesti per i quali sono prodotti.

E se questo è vero per una struttura come quella hollywoodiana non lo era meno per le produzioni di punta della Mosfilm all’epoca dell’Urss.

L’apparato era di proprietà statale e, essendo l’URSS in un regime diretto da un partito unico (partito poco incline ad accettare voci discordi dalla narrazione che esso stesso imponeva), soprattutto quando si aveva a che fare con produzioni imponenti o sulle quali c’erano aspettative di grande diffusione e che toccavano tematiche di valore sensibile per la narrazione propagandistica, gli spazi di autodeterminazione e di libertà di movimento dell’artista erano, quanto meno, fortemente monitorati (e nel caso duramente limitati).

Improbo, quindi, si scriveva, acquisire uno spazio politico autonomo (e dissonante)…. ma non impossibile.

Vorrei infatti portare all’attenzione del lettore due opere prodotte rispettivamente a Hollywood e in Urss che riescono in questo intento attraverso un procedimento affine che consiste nel nascondere delle negazioni di ciò che si racconta all’interno di opere destinate a fare (più o meno coscientemente) propaganda dell’ideologia del regime che le produce. In questo caso l’articolazione di una dialettica, di una politicità soggettiva all’interno di una produzione destinata a quel determinato luogo/contesto, è legata alla possibilità di stabilire un ponte con i pochi che lì sono capaci di leggere quella negazione, quel sabotaggio. Si tratta insomma di un’operazione carbonaro-ludica, destinata a creare comunità con i pochi (o magari semplicemente a sentirsi più integri), mentre si tende ad ingannare i molti (e ad acquisire prestigio presso di loro e/o a non perdere denaro). Due opere nate in due contesti molto lontani: la prima è un blockbuster di fantascienza hollywoodiano di fine anni ‘80, la seconda è invece una produzione della Mosfilm degli anni ‘70 che racconta della resistenza bolscevica durante l’occupazione del 1918 di Odessa da parte dell’Armata Bianca.

(Segue sul prossimo numero di A due voci)

 

[1]     Ambedue esigono investimenti ingenti – il cinema in particolare – e quindi non permettono un approccio puramente personale e privato alla creazione ma esigono la convergenza di forze e risorse collettive; ambedue usano il corpo umano di attori e – quasi sempre – la loro parola, con eccezioni più che rare, e quindi, volente o nolente, le opere si configurano sempre come uno spaccato di vita sociale; per ragioni economiche il cinema è sempre stato legato alla presenza del pubblico e di conseguenza all’esistenza di luoghi atti ad accoglierlo ed a riprodurre il film e quindi oltre agli spazi fisici che si prende per la produzione esige anche luoghi specifici per la fruizione, ambedue parte integrante del contesto urbanistico della città; il teatro invece per ragioni essenziali, oltre che anche economiche, esige addirittura la compresenza fisica di spettatori e artisti nello stesso luogo, che è anch’esso un luogo specifico nel contesto urbanistico della città, che deve essere sufficientemente capiente e adeguatamente, specificamente attrezzato; ecc.

[2]     Per luoghi/contesti intendo contesti sociali (settori della società connessi alla fruizione, alla commissione o alla produzione delle opere) la cui attività si intreccia con l’opera in luoghi concreti (sale cinematografiche, set, uffici, sale prove, laboratori, redazioni e teatri) o non-luoghi digitali con annessi subluoghi concreti dove avviene la fruizione collettiva (ad es: netflix e gli innumerevoli divani di casa).

[3]     Scriveva già qualcosa di simile negli anni Trenta Brecht nel suo Il teatro modero è il teatro epico di Bertolt Brecht in Brecht B., Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 1962 (2001), p. 25-26.

[4]     Gli esempi di questo legame tra mutamenti poetici e cambiamenti di rapporti tra procedimenti produttivi e luoghi/contesto sono infiniti. Basti pensare al processo storico che nel XVI sec. portò in Italia alla nascita del professionismo teatrale, alle caratteristiche che assunse in capo a 50 anni e alla trattatistica che produsse; o ancora agli sviluppi che si determinarono nella teoria e nella pratica del teatro a cavallo tra il XIX e il XX secolo e che ebbero come protagonisti spesso compagnie fondata su principi produttivi nuovi (Antoine, Brahm, ma anche i Meininger o la “Società di letteratura e arte” dalla quale poi di fatto nacque il “Teatro d’arte accessibile a tutti di Mosca”); o all’effetto sortito sul teatro italiano ed europeo degli anni ‘60 dalle tournée di alcuni gruppi che producevano in base a principi totalmente alternativi ed erano forieri di metodologie poetiche aliene alla realtà italiana: Grotowski, Living theatre, Barba; o al Cinema neorealista con le sue innovazioni produttive (gli attori, le location, la lingua) e al suo rapporto con il popolo e i militanti della sinistra (e le loro organizzazioni); e ovviamente a moltissimi altri che non starò ad enumerare.

[5]     Szondi P., Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1962, pp. 9-13.

[6]     Sicuramente parzialmente in deroga a questi principi sono costruiti i film di Quentin Tarantino.

[7]     Un meme ironico dedicato a questa serie che girava sui media era costituito in due vignette e si intitolava “Breaking bad a Cuba”. La prima vignetta faceva vedere il protagonista e il dottore. Nel fumetto il dottore diceva: “lei ha un cancro ai polmoni. Venga domani che cominciamo la chemio”. Nella seconda vignetta c’era scritto: “fine della serie”.

[8]     Chubbuck I., Il potere dell’attore, Roma, Dino Audino Editore, 2011 (prima edizione americana 2004).

[9]     Ivi, p. 17.