Propaganda e sabotaggio a Hollywood e a Mosca | Il caso di due opere metacinematografiche di regime (seconda parte)

Riprende dal numero scorso di A due voci.

La prima parte dell’articolo finiva con una riflessione su quanto le strutture produttive hollywoodiane fossero condizionanti e si affermava che:

Quando si è all’interno di una struttura produttiva come questa risulta quindi improbo acquisire uno spazio politico soggettivo autonomo in cui l’opera possa acquisire una funzione politica che vada in dissonanza con l’ideologia obiettiva determinata dai procedimenti produttivi e dal loro legame con i luoghi/contesti per i quali sono prodotti.

E se questo è vero per una struttura come quella hollywoodiana non lo era meno per le produzioni di punta della Mosfilm all’epoca dell’Urss.

L’apparato era di proprietà statale e, essendo l’URSS in un regime diretto da un partito unico (partito poco incline ad accettare voci discordi dalla narrazione che esso stesso imponeva), soprattutto quando si aveva a che fare con produzioni imponenti o sulle quali c’erano aspettative di grande diffusione e che toccavano tematiche di valore sensibile per la narrazione propagandistica, gli spazi di autodeterminazione e di libertà di movimento dell’artista erano, quanto meno, fortemente monitorati (e nel caso duramente limitati).

Improbo, quindi, si scriveva, acquisire uno spazio politico autonomo (e dissonante)…. ma non impossibile.

Vorrei infatti portare all’attenzione del lettore due opere prodotte rispettivamente a Hollywood e in Urss che riescono in questo intento attraverso un procedimento affine che consiste nel nascondere delle negazioni di ciò che si racconta all’interno di opere destinate a fare (più o meno coscientemente) propaganda dell’ideologia del regime che le produce. In questo caso l’articolazione di una dialettica, di una politicità soggettiva all’interno di una produzione destinata a quel determinato luogo/contesto, è legata alla possibilità di stabilire un ponte con i pochi che lì sono capaci di leggere quella negazione, quel sabotaggio. Si tratta insomma di un’operazione carbonaro-ludica, destinata a creare comunità con i pochi (o magari semplicemente a sentirsi più integri), mentre si tende ad ingannare i molti (e ad acquisire prestigio presso di loro e/o a non perdere denaro). Due opere nate in due contesti molto lontani: la prima è un blockbuster di fantascienza hollywoodiano di fine anni ‘80, la seconda è invece una produzione della Mosfilm degli anni ‘70 che racconta della resistenza bolscevica durante l’occupazione del 1918 di Odessa da parte dell’Armata Bianca.

Cominciamo dal primo.

Grazie alla genialità del soggetto di Philip Dick (e probabilmente di qualcun altro membro del team di autori: difficile capire se del regista Verhofen – cosa che mi sembra più probabile -, degli sceneggiatori O’Bannon, Shusett, Povill, Goldman o dello stesso Schwarzenegger, attore austriaco, interprete protagonista e di fatto produttore del film, che ha voluto come regista l’olandese Verhofen, cioè un altro europeo) abbiamo un esempio in cui la stessa modalità di costruzione della trama, la stessa identica modalità di impostazione produttiva producono un sovvertimento a 180° una negazione totale di questa ideologia…. anche se questo sovvertimento è camuffato ben sotto le compatibilità produttive del blockbuster e pochi destinatari di questo sabotaggio forse si sono soffermati su questa sovversione mentre è quasi certo che la grande massa di spettatori del film ne avrà recepito solo l’eterna retorica ideologica dell’individuo onnipotente.

Il colossal si chiama Total Recall, in Italia intitolato Atto di forza (Usa, 1990) e la storia, sostanzialmente, è identica a quella di Avatar. Riassumo molto succintamente. Un operaio, Quaid, scopre di non essere quello che crede, ma di essere un ex agente segreto a cui nel cervello è stata innestata una memoria finta. Quaid si scopre depositario di importanti segreti capaci di sovvertire l’ordine imperante sul pianeta Marte, dove dei ribelli lottano contro l’uomo forte locale, imprenditore e dittatore, Cohagen di cui lo stesso Quaid era stato al servizio. Quaid salpa su una navicella spaziale e va su Marte, dove però prenderà coscienza della malvagità di Cohagen e passerà dalla parte dei ribelli, liberando il pianeta e rendendolo vivibile.

Abbiamo sostanzialmente lo stesso identico percorso di Avatar: una persona semplice, relegata fuori dai grandi giochi di potere del mondo, finisce per diventare eroe protagonista della liberazione di un pianeta da un’odiosa dittatura di un avido imprenditore. Ora, però, in questo caso c’è un gioco meta-narrativo che rivolta totalmente il senso di ciò che accade. La vicenda infatti inizia così: Quaid sogna di essere su Marte, di camminare, vestito con una tuta spaziale, assieme ad una brunetta, di scivolare, di cadere provocandosi una lacerazione della tuta spaziale e di soffocare per mancanza di ossigeno. Il giorno dopo, a fine lavoro, vede su un cartellone la pubblicità di una ditta che opera nel campo del turismo che si chiama Recall. La Recall offre il servizio di innestare nel cervello delle persone memorie di viaggi e avventure che non hanno mai fatto. Quaid, nonostante le perplessità della moglie, va a comprarsi una nuova memoria e sul menu sceglie: un’avventura, spionistica, su Marte, che contenga una storia d’amore, con una bruna (la moglie, invece è bionda). Durante l’innesto, però, sembra verificarsi un problema, un sorta di falso contatto che scatena un delirio paranoico in Quaid, che viene contenuto a stento. Si scopre che il “falso contatto” era generato da un precedente innesto di memoria, Quaid scopre che nella vita precedente era un agente segreto sul cervello del quale era stata innestata una falsa memoria per tenerlo lontano da situazioni di cui è a conoscenza e sulle quali potrebbe interferire a detrimento di Cohagen…. e comincia tutta la trama. Alla fine Quaid libererà Marte dalla sua atmosfera velenosa assieme ad una ribelle del quale si innamora (una donna bruna che si chiama Melina) azionando un reattore creato dai marziani millenni prima che rende respirabile l’aria di Marte. L’ultima inquadratura vede Quaid e la bella Melina di spalle, in cima ad una montagna, con un meraviglioso panorama da cartolina, che si scambiano le seguenti battute.

Melina: I can’t believe it. It’s like a dream. (Pausa. Lo guarda. Capisce che qualcosa lo turba). What’s wrong?

Quaid: I just had a terrible tought. What if this is a dream?

Melina: Well, then, kiss me quick before you wake up.

Bacio.

The end

Questo breve dialogo con l’inquadratura e il montaggio trionfalistico orchestrato da Verhofen ci riportano alla vicenda iniziale dell’acquisto per denaro di una memoria creata in laboratorio e grazie a questo testa/coda la tipica narrazione hollywoodiana si trasforma in una parabola sulle tipiche narrazioni holywoodiane. In definitiva l’operaio Quaid ha avuto ciò per cui ha pagato e noi stiamo semplicemente vedendo il suo sogno. Proprio quello che voleva lui: una vita avventurosa, da agente segreto, su altri pianeti, che lo rendessero un eroe e con avventure eroiche e amorose, possibilmente con una brunetta. Noi, operai Quaid, dietro pagamento, tramite l’immedesimazione in un nostro avatar (non a caso), tanto più performante di noi quanto può esserlo Schwarzenegger, abbiamo creduto a come un semplice operaio Quaid può diventare il faber fortunae suae e per il tempo del film lo siamo diventati con lui. A prezzo di un biglietto di cinema. Che è sostanzialmente il reale valore dei nostri sogni di grandezza di persone destinate a rimanere operai che sognano, cioè, al di là dei loro sogni, semplici, passivi consumatori di vite da supereroi alle quali, ovviamente, non hanno alcuna possibilità di avvicinarsi nella realtà…. lasciandole ai Bezos, ai Gates, ai presidenti, ecc.

Un gioco, quello di Verhofen, capace di metterci davanti ad una verità crudelissima. Verità totalmente occultata dentro un meccanismo produttivo assolutamente compatibile con la veicolazione di contenuti ideologici diametralmente opposti a quella verità.

Il caso di Atto di forza è molto simile a quello di un film sovietico diretto da Nikita Michal’kov: Schiava d’amore.

Qui il gioco del rapporto tra ente produttivo, commissione sociale del luogo/contesto a cui è destinato il prodotto e soggettività dell’artista funziona diversamente, visto che la struttura produttiva e il luogo/contesto committente sono di fatto decisi dalla stessa entità, lo Stato.

Vale la pena di soffermarsi brevemente sul rapporto tra gli artisti e le strutture produttive in URSS. Strutture statali i cui dirigenti erano membri del Partito Comunista che dirigendo a tutti i livelli la politica e la gestione dello stato ne decideva nomine (e rimozioni). Il PCUS era un partito enorme, un partito-stato e quindi sarebbe ingenuo pensare che non avesse al suo interno articolazioni  politiche, con conseguenti conflitti, dialettiche, alleanze, ecc. Tuttavia la “concezione leninista” del partito (concezione consolidatasi dopo la morte di Lenin, in particolare sotto Stalin, mai rivista negli anni successivi… ma niente affatto corrispondente alla prassi del partito bolscevico quando  Lenin era in vita) prevedeva però l’imperativo dell’unità granitica del partito[1]. Le decisioni venivano sempre prese all’unanimità e la forma massima, e rara, di dissenso era l’astensione. Questo tipo di impostazione rendeva l’articolazione delle posizioni sempre molto cauta, nascosta, non detta, non formalizzata in raggruppamenti collettivi. In questa situazione le “libertà” che si poteva prendere un artista relativamente ai diktat ideologici  (una volta passato il regime di terrore staliniano, dove in gioco era direttamente la vita, il che generava una totale e comprensibile cautela da parte degli artisti) dipendevano da un difficile gioco di equilibri tra “quanto” era scandalosa rispetto ai parametri soliti la libertà che ci si prendeva e una serie di legami personali e patrocini con esponenti di punta del partito connessi per amicizia, affinità di gusti, inconfessati calcoli politici e gestionali. Gli artisti giocavano regolarmente su questa articolazione di piani. Spesso bruciandosi. Cosa che non successe mai a Nikita Michal’kov.

Difficile fare un confronto tra il grado di illibertà e di condizionamento degli artisti e delle loro creazioni nelle produzioni hollywoodiane e in quelle delle case di produzione sovietiche. Perché i procedimenti e le tipologie di condizionamento erano differenti. Dal punto di vista dei linguaggi filmici, però, mi sento di affermare con una certa tranquillità che Hollywood sia stata e sia tutt’oggi molto più uniformante di quanto sia stato il Cremlino.

Le procedure di condizionamento politico dell’opera in Urss erano diverse da quelle di Hollywood. Lì non si esigeva che la strutturazione della dinamica interna dell’opera fosse di per sé foriera di un contenuto ideologico, senza la necessità di esporre questo contenuto, senza necessità di soggettivarlo. Lì si esercitava direttamente e apertamente il controllo sul contenuto politico dell’opera e si esigeva dall’artista che questi lo soggettivasse, lo facesse proprio, lo impugnasse e articolasse l’opera attorno a questo contenuto. Insomma la committenza coincideva con la produzione e definiva il luogo/contesto chiedendo alla soggettività dell’artista di aderire all’operazione che si era deciso di fare (ovvero controllando che la proposta dell’artista coincidesse o comunque non interferisse con gli interessi dello Stato, ovvero entrasse in una dialettica moderata che lo stesso Stato, sulla base di considerazioni inevitabilmente politiche, considerava compatibile con i suoi interessi).

Un dato questo che a mio parere rendeva più deboli, meno capaci di essere invasive, le narrazioni, in particolare quelle apertamente propagandistiche, dei regimi dell’est rispetto a quelle della “libera” America. Lo Stato è fatto di persone che decidono in base a criteri razionali (anche quando la razionalità diventa labirintica e contraddittoria per le molte istanze che concorrono a formarla) e quindi ampiamente fallibili nel determinare il rapporto tra procedimenti produttivi dell’opera e luoghi/contesto per i quali, nei quali l’opera vivrà. Soprattutto perché regimi del genere non hanno sufficienti strumenti per verificare l’effettiva capacità, disponibilità dei luoghi/contesto di accogliere il ponte lanciato dalle istanze produttive. Infatti, in genere, i luoghi/contesto a cui sono destinate le opere sono decisi e determinati dagli stessi produttori delle opere. È lo Stato che decide se vale la pena di produrre o meno un’opera, e con quale modalità produttiva va creata e dove, come e quando la farà fruire al pubblico. Cioè impone l’opera a questo o quel luogo/contesto che definisce in base agli intenti dell’operazione e ad un “sentore” dell’opportunità politica di fare quest’operazione. Ma il naso che coglie questo “sentore” appartiene agli apparati dello stesso organismo, lo Stato, che ha deciso che era opportuno produrre l’opera, per cui è un naso, come dire, “di parte”, con un olfatto viziato.

 Errore che in una società che regola i suoi investimenti in base allo studio delle esigenze di “mercato” è meno frequente. Per quanto riguarda Hollywood il mercato mantiene per sé il ruolo di ultima istanza nel decretare il successo di un’impresa produttiva. Non solo per ovvie ragioni economiche, ma anche perché è non solo più capace di riflettere i moti spontanei della società (cioè il continuo modificarsi, spostarsi, ri-conformarsi dei luoghi/contesto), ma essendo anche più oggettivo e indipendente, è “naturalmente” autorevole. Un “naso” che per fiuto e capacità di influenzare le decisioni dei produttori è assai più potente quelli che avevano in dotazione le case di produzione dei regimi dell’est. E siccome la produzione deve stare molto attenta a non derogare dalle sue indicazioni, pena la perdita dell’investimento, ne ascolta le indicazioni e produce studi molto più complessi sulle dinamiche che determinano i possibili luoghi/contesti e sulle strategie per influenzarne il gradimento. Quest’attenzione genera un sistema di condizionamento delle procedure di produzione assai più rigido e competente di quello che possono mettere in campo dei burocrati censori o degli iscritti a un partito di quel tipo. È un sistema, quello connesso al mercato, che sottosta a continue verifiche “oggettive” di funzionalità e queste verifiche con i relativi collaudi e successivi aggiustamenti, legano molto più saldamente i procedimenti produttivi dell’opera ai luoghi/contesti per i quali, nei quali è prodotta. Da parte loro questi luoghi/contesti accolgono più favorevolmente quelle opere che rafforzano i meccanismi sociali in base ai quali essi esistono, quelle opere, cioè, che forniscono un’ideologia capace di sostenere quei meccanismi sociali. Detto in termini meno generici: una persona che affronta quotidianamente una lotta per vivere (e magari vincere) secondo un determinato coacervo di regole e condizionamenti sociali, ascolta più volentieri una narrazione in grado di dirgli che quello che fa ha un senso, piuttosto di una che gli dice che non ha senso[2].

Fatto questo raffronto, torniamo ai regimi dell’est e, concretamente, nella Mosca degli anni ‘70, dove è stato prodotto il film di Michal’kov di cui ci occupiamo.

È ambientato nel mondo del cinema muto ad Odessa, durante la guerra civile. La città è occupata dall’Armata Bianca e i bolscevichi fanno un lavoro di resistenza clandestino. Alla rete bolscevica si è unito anche un operatore cinematografico (Viktor Potockij) impegnato, al momento, nelle riprese di un film intitolato Schiava d’Amore che ha per protagonista una diva (Ol’ga Voznesenskaja, personaggio ispirato alla famosa diva del muto russo Vera Cholodnaja) che si disinteressa di politica, che vive di atmosfere liriche, poetiche, amorose ed è abituata, affezionata, legata all’eleganza del tratto e dei rapporti tra le persone. L’operatore è innamorato della diva (che si mostra interessata a lui) e vuole distoglierla da un mondo che considera posticcio e falso, vuole che entri in relazione con la catastrofica, violenta, terribile realtà che questo mondo posticcio ammanta, che sappia che c’è una rivoluzione in corso, che il mondo sta per cambiare, che ci sono altri e diversi ideali rispetto alla nobiltà del tratto, vuol farle sapere che gli ufficiali bianchi che lei frequenta, che questa nobiltà sembrano incarnare nel loro parlare e gestire, nonostante la loro eleganza sono dei torturatori spietati. L’operatore prova a parlarci diverse volte, ma nonostante lei sia ben disposta verso di lui, Olga non ne vuole sapere, si distrae, si disinteressa. Finalmente Viktor la invita ad una riunione clandestina dove verrà proiettato un film girato da lui. Infatti Viktor ruba pezzi di pellicola per fare riprese clandestine destinate a far conoscere al mondo ciò che succede ad Odessa. In questo film sono alternate riprese documentarie di repertorio (fosse comuni piene di cadaveri di persone giustiziate, contadini ridotti alla fame, bambini malnutriti) e due sequenze invece già viste nel film (in bianco e nero nel film girato dall’operatore, a colori nel film) nelle quali i bianchi sono ripresi mentre compiono azioni di repressione molto violente. Altrimenti detto: nel film di Viktor sono accostate scene documentali e scene di fiction che abbiamo già visto nel film di cui Viktor è un personaggio, come se a girarle fosse stato il personaggio stesso. La vista del girato da Viktor sconvolge totalmente Ol’ga, che decide di schierarsi con i bolscevichi e, dopo essere stata testimone dell’uccisione di Viktor e della fucilazione di alcuni suoi compagni, prova senza riuscirci ad uccidere l’ufficiale bianco che ha comandato gli assassini. Sta per essere giustiziata essa stessa, quando viene salvata da un commando bolscevico, che ferma un tram vuoto che va dalla zona fuori città dove sono gli studios al centro di Odessa e chiede al guidatore di portarla in salvo. Il guidatore accetta, ma passando davanti ad un manipolo di soldati bianchi a cavallo salta giù dal tram in corsa e denuncia Ol’ga. I soldati si lanciano alla rincorsa del tram che continua a correre senza il conduttore con l’attrice che li guarda stralunata e ormai quasi impazzita e dice loro che la storia li maledirà. Su quest’inseguimento (non concluso) finisce il film.

Il film, dedicato alla lotta dei bolscevichi contro i bianchi, ha in realtà come contenuto interno il potere di convincere del cinema. È un meta-film sul cinema. Ol’ga, che nessun discorso sarà stato in grado di convertire alla causa rivoluzionaria, sarà convinta solo dalla visione del film girato clandestinamente dall’operatore Viktor. Film che, in bianco e nero, contiene al suo interno anche la prima sequenza dell’intero film Schiava d’amore (che in quell’occasione però è a colori). In questa sequenza durante la proiezione cinematografica di un melodramma, che ha per protagonista proprio Ol’ga Voznesenskaja[3], irrompono le squadracce bianche, arrestano un uomo sospettato di essere un bolscevico. Lo trascinano fuori e portandoselo dietro, prima attraversano un cortile, poi una piccola galleria e poi finalmente escono in strada. Lì scagliano l’arrestato contro una vetrina che va in frantumi, quello sviene dopo l’impatto e il suo corpo viene lanciato su un camion che lo porta via.

Particolare fondamentale: nel cortile c’è un temporale e piove, la gente vi si affolla con gli ombrelli; per strada invece c’è il sole.

Conclusione: il cinema è potente, la propaganda filmata è capace di convincere….ma è anche ben capace di mentire.

Ecco quindi che il figlio del poeta Sergej Michal’kov (autore delle parole tanto dell’inno dell’Urss del 1942 quanto di quello della Federazione Russa del 2001 – la musica era la stessa), fratello di Andrej Konchalovskij (autore di un importante colossal di propaganda quale Siberiade), nato e cresciuto all’ombra del Cremlino e sempre interno agli ambienti della élite artistica dell’Unione Sovietica e evidentemente con molte conoscenze altolocate nel partito, regista e attore di grandissimo talento, lancia un ponte verso quei pochi che possono accorgersi di questo particolare e gli dice qualcosa tipo: “è vero che faccio un film di propaganda filo-sovietica, ma in realtà questo film è piuttosto sulla propaganda e sul ruolo che in essa ricoprono le immagini e, aggiungo: la propaganda filo-sovietica, questa compresa, mescola il reale al finzionale e manipola il reale, quindi attenti a crederci visto che anche io, in definitiva, vi sto mentendo.”

Interessante, comparando Atto di forza e Schiava d’amore, il fatto che ambedue queste operazioni sovversive siano accomunate dalla necessità di usare una struttura narrativa meta-artistica (cinema sul cinema per Michal’kov, sogno artificiale su sogno artificiale per Verhofen[4]) per poter liberare la soggettività politica dei loro autori.

Come mai?

Ipotizzo una spiegazione.

In questi due casi il meta-cinema accomuna spettatori ed autore offrendo loro l’opportunità di collocarsi in uno spazio comunicativo, come dire?, compresente, di tipo performativo, teatrale. In questo tipo di spazio lo spettatore è necessariamente attivo. Deve prendere l’opera, mettersela davanti, tirarsi fuori dal flusso narrativo che la caratterizza, affiancarsi all’autore e assieme a lui riflettere sul rapporto che li lega, da posizioni differenti, alla comunicazione cinematografica. L’autore ha disseminato nel flusso narrativo una serie di dispositivi che vengono colti dallo spettatore. Quando questi li coglie, il flusso narrativo cessa di essere al centro della sua attenzione e, di conseguenza, cessa di essere l’oggetto della comunicazione tra autore e spettatore. Questo permette all’artista di chiamare in causa la funzione della propria opera d’artista e contestualmente di convocare lo spettatore a una messa in discussione della sua funzione di spettatore (e dei meccanismi di questa funzione). Nei due casi raccontati, concretamente, autori e spettatori sono messi di fronte all’evidenza di quelli che di consuetudine  sono i loro rispettivi ruoli all’interno di un rapporto comunicativo determinato dal potere che impone alla creazione e alla fruizione dell’opera una funzione mitopoietica e propagandistica. Ecco così che i due si interrogano sul loro rapporto all’interno della società e quindi, necessariamente, sulla funzione politica di questo rapporto. La loro cooperazione in questo interrogarsi trasforma quella comunicazione in un atto di assunzione di consapevolezza politica, crea tra autore e spettatore una micro-comunità politica (alternativa). Li soggettivizza e attiva politicamente in quanto artisti e spettatori.  Come se un attore mentre fa una performance chiamasse lo spettatore a salire sul palco e ad unirvicisi.

 

[1]     Ufficialmente questa dottrina non venne messa in discussione neanche durante la segreteria Gorbačëv. Le cose, però, cominciarono a cambiare con una velocità sempre maggiore, soprattutto dopo l’episodio clamoroso della pubblicazione il 13 marzo del 1988 sul giornale Sovetskaja Rossija della lettera della “semplice iscritta” Nina Andreeva, docente dell’Istituto Tecnologico di Leningrado. La lettera, intitolata: “Sui principi non posso cedere” criticava aspramente la politica “filo-occidentale” di Gorbačëv e giudicava in termini estremamente negativi le critiche dei vertici del partito alla figura di Stalin. Su questa lettera gli storici discutono molto, molti però convergono sull’idea che non ci fosse un “mandante” altolocato. Tanto era dirompente la pubblicazione di un articolo di un iscritto che si dichiarava in aperto dissenso con la gestione del partito da parte della dirigenza, che Gorbačëv convoco di lì a breve, per il 23 marzo, una riunione di due giorni della direzione del partito (politbjuro) per discuterne. Di lì in poi i dissensi all’interno del PCUS cominciarono ad essere espressi sempre più apertamente e spesso anche aspramente. Il PCUS venne sciolto di imperio dal presidente russo El’cyn di lì a 3 anni.

[2]     Due osservazioni. La prima è che, come abbiamo visto con il caso di Avatar, o di Breaking bad, questo meccanismo di rassicurazione può tranquillamente non vedere intaccata la sua funzionalità anche quando la narrazione si presenti come rappresentante una posizione politica oppositiva, critica o addirittura alternativa rispetto al main stream dell’andamento della società; cioè se rispetta alcuni procedimenti produttivi, è in grado di rassicurare anche quando accoglie nella vicenda narrata la coscienza che molte cose non vadano bene nel mondo di cui quegli spettatori fanno parte. La seconda invece è che sono esistite epoche recenti in cui la società occidentale viveva una dialettica di narrazioni molto forte e aperta. In questo caso si apriva il varco anche a diversificazioni di relazioni tra procedimenti produttivi e luoghi/contesto (esempio evidente già citato in precedenza è il cinema del neorealismo; ma anche molto film d’autore degli anni ‘60 e ‘70, ecc.). Ricordo peraltro che proprio nel periodo apicale di questa dialettica (la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anno ‘70) Hollywood visse una profonda crisi produttiva.

[3]     Il breve spezzone di film con Ol’ga Voznesenskaja che facciamo a tempo a vedere prima dell’irruzione dei soldati bianchi e che dai cartelloni pubblicitari inquadrati scopriamo intitolarsi proprio Schiava d’amore, ha anch’esso un forte richiamo al tema del film principale. La protagonista vi interpreta una moglie cieca. Il marito le chiede di suonare il violino e mentre lei suona, tra un falso complimento e l’altro per come suona, chiama una servetta e la tradisce proprio sotto gli occhi di non vedente. Cieca è la stessa Ol’gal che nella vita non vuole vedere la violenza della realtà che la circonda. Cieca e assordata dalla sua attività artistica e dai complimenti, dalle attenzioni che per questa riceve. Almeno sino alla fatale proiezione clandestina organizzata dall’operatore Viktor Potockij…. Ma non meno cieca sarà quando crederà alla propaganda del film che l’operatore ha creato mescolando indistricabilmente la realtà all’artificio e di fatto confezionando quello che oggi verrebbe definito un fake

[4]     “C’è un complesso mondo di immagini significative – sia quelle mimiche o ambientali che corredano i linsegni, sia quelle dei ricordi e dei sogni – che prefigura e si propone come fondamento «strumentale» della comunicazione cinematografica”.  Pasolini P.P., Empirismo eretico, Roma, Garzanti, 1972 (1990), pp.167-187