Ereditare, ripetere, innovare come lemmi dell’atto interpretativo (prima parte) | Filosofia dell’interpretazione musicale

Filosofia dell’interpretazione musicale in quindici puntate
Nona puntata

Declinazioni parallele e tangenze reciproche in ambito filosofico e musicale

Che cosa significa ereditare?

È la domanda che in ambito extramusicale rivolge a tutti noi Massimo Recalcati nel sensibile libro Il complesso di Telemaco e in numerose sue conferenze. Per Recalcati l’alternativa tra eredità intesa come clonazione del sapere ricevuto (in nome di una presunta assoluta fedeltà ai padri) ed eredità intesa, all’opposto, come paradossale rifiuto dell’eredità stessa, ovvero come cammino solitario e nuovo su un sentiero vergine, è fonte di un cattivo ereditare.

Sarebbe necessaria una terza via, dice Recalcati: quella percorsa da Telemaco e da chi accetta il viaggio alla ricerca dei padri, riscattando ogni giorno l’eredità e rinnovandone il senso: non da orfani decisi a tagliare i ponti con chi ci ha preceduto, né da ripetitori sterili di mondi non più attuali: ma da uomini e donne nuovi, e capaci di nuovo, proprio in quanto eredi consapevoli di radici ineliminabili, di debiti inestinguibili. Insomma l’eredità è un compito, un cammino: il viaggio, l’atto di ereditare, è critico e dinamico: eredità è, citando Celan, la tua testimonianza irrefutabile; è essere scelti, farsi orfani, dare e farsi senso; è costruire e provocare il nuovo, ed esserlo.

Tra le molte etimologie ascrivibili alla genesi del sostantivo eredità difatti una delle più pregnanti e certe è quella che lo lega al verbo haireo: scegliere, elevare, eligere (el- è tra i radicali di haireo, a costituire il paradigma del verbo); chiamare per elezione; sollevare e salvare, dunque.

Altro sentiero etimologico connette il radicale ghr, base della parola erede, a orbus latino e, prima, a orphanòs greco. E vale appena la pena di notare come già questa ermeneutica ci catapulti in campo musicale in modo inequivoco: Orpheus non è forse l’orbato-orbo, padre di tutti i musici strettamente connessi al mondo dei morti? Non è, contemporaneamente, figura vitalissima dal canto struggente sempre rivolto all’intera umanità? Non è il mousikòs sempre ritratto con la bocca aperta, in atto di cantare? Non è il padre degli aedi ciechi? Non è l’eletto che risponde con il canto a una vocazione? Non è il mortale per eccellenza, che canta tuttavia oltre la vita e oltre la morte, e dice le storie del mondo, connettendo l’essere stesso alle sue luminose e oscure origini?

Notevole come anche il sostantivo eresia si connetta fecondamente a tale complesso di significati configurandosi, soprattutto in campo ermeneutico, come dovere di eresia. Ereditare è allora offrire il fatto d’essere “la vite storta”, tragicamente singola e scabrosamente deviata e imprevedibile, eppure sola possibile connessione tra mondi. L’interprete è, arendtianamente, l’angolo e la diagonale tra passato e futuro: e passato e futuro prendono senso e sono (e formano quel curioso angolo privo di origini) solo nella viva interpretazione (la diagonale che li connette e li fa esistere: la tua testimonianza irrefutabile), in una radicale coscienza di un’assoluta responsabilità ermeneutica che tutti ci riguarda – e che nel grande artista è per natura elevata al cubo.

È questo un passaggio delicato, ma pregnante e inevitabile. La prohairesis degli Stoici, di cui Marco Aurelio ed Epitteto tratteggiano il dato etico ed esistenziale apriori, governa giusto le logiche personali della scelta, in cui risplende il sole interno dell’elezione. L’erede è stato scelto – ed è quindi capace di farsi orfano: orbato, deve ora scegliere a sua volta, costituendo strade che costituiscano passato e futuro, vessillo egli stesso, testimone, facitore di mondi. Strade che non risultino ancorate a pedisseque riedizioni di un passato da omaggiare: ma che aprano il nuovo, in un dialogo radicale con il proprio tempo, con i lontani cui si tributa un culto, e con l’a – venire, inteso nel complicato senso utopico e profetico del termine.

Fortissime le implicazioni di ciò che si è appena detto in ambito musicale, ove l’intera questione si complica e si arricchisce di particolarissimi traini.

L’interprete musicale è protagonista di un esercizio ermeneutico originalissimo. Come si comporta al cospetto del lascito che recepisce dal passato (segni di segni, interpretazioni di interpretazioni)? Profonde bravura, istinto performativo, tactus stilistico, sentimento e diagnosi della storia disegnando, mentre interpreta, una visione del mondo e non di rado un profondissimo e urgente senso di Dio e dell’uomo (senso che all’artista parla proprio nell’arte). Il lascito viene ereditato in forma tale da abbisognare appunto dell’interprete per diventare musica. Lo abbiamo già detto altrove: senza l’interprete non si effettua quel singolare passaggio ontologico da segno a suono, a forma, a ectoplasma vivente, a emozione condivisa e realissima in cui la musica propriamente consiste. Senza l’interprete non si dà viaggio dell’opera. Il destino della grande opera si compie nel distacco – talvolta felice, talvolta carico di struggimento – dal suo creatore e dal suo proprio contesto; l’opera diviene così protagonista di una Wirkungsgeschichte del tutto imprevedibile, inserita in un fiume ora statico ora rapinoso ora sommerso, che il grande interprete nutre d’acque, conscio di molti pericoli. Senza l’interprete, senza il commento vivente e la fiaccola-testimone che ella ed egli è, non si dà vita inesauribile dell’opera, né interruzione né ritrovamento, né esilio né rimpatrio, né familiarità né estraneità né innesto, né nostalgia né geometria interiore, né paesaggio, né storia.

(Segue sul prossimo articolo di A due voci)