Pasolini e la parola che canta

La musica è una delle vie privilegiate di accesso all’universo creativo di Pasolini e lo è nonostante il suo rapporto col mondo sonoro sia stato molte volte discontinuo e contraddittorio. Pasolini aveva studiato un po’ il violino da ragazzo e aveva una conoscenza approfondita di alcuni autori come Bach – primo fra tutti – Mozart, Vivaldi, Beethoven. Tuttavia, l’aspetto che maggiormente determinava il suo autentico interesse per la musica nasceva altrove, nel suo modo di porsi in ascolto, nell’immediatezza di un sentire sempre aperto ad ogni genere musicale, ad ogni forma sonora. Un rapporto istintivo sempre legato alla vita.  

Forse per questa ragione Pasolini considerava la musica “l’azione espressiva più alta” alla quale affidarsi nel suo lavoro creativo sempre teso verso la costante ricerca del reale. Lo afferma con convinzione nel 1967 quando decide di terminare il suo poema autobiografico Poeta delle ceneri con dei versi dove si immagina nella sua torre viterbese – un luogo immerso nella pace della campagna dove Pasolini amava rifugiarsi in quegli anni – non per scrivere poesie, ma per comporre musica: “Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, / che io vorrei essere scrittore di musica, / vivere con degli strumenti / dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, / nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto / sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta / innocenza di querce, colli, acque e botri, / e lì comporre musica / l’unica azione espressiva / forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà.” 

Con queste parole Pasolini sembra invitarci a considerare la scrittura musicale come l’apice di un atto creativo che, proprio per la sua indefinibilità, si ricollega al mistero ontologico del reale. Un mistero che Pasolini cerca di rintracciare un po’ ovunque: nelle sonorità dei dialetti, nella danza, nei rumori di fondo, nei silenzi. Un orizzonte sonoro lontano dalla parola scritta. Nel cinema utilizzerà la musica e queste sonorità per rompere la bidimensionalità delle immagini proiettate sullo schermo aprendole così “sulle profondità confuse e senza confini della vita” dichiarerà allo storico irlandese Jon Halliday durante una conversazione.  

Tematiche che sono state recentemente oggetto di un nuovo ed approfondito studio intitolato Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances curato da Claudia Calabrese per Diastema Editrice. Un lavoro che già dal titolo speculare ci indica l’inscindibile reciprocità di questa relazione che, come scrive l’autrice, con il “sostantivo baudelariano correspondances evoca il rapporto segreto, profondo, fra il poeta e le cose del mondo”. L’autrice ritiene, giustamente, che il pensiero di Pasolini sulla musica sia attraversato da accenti schopenhaueriani, proprio perché costantemente attento all’udito come senso di percezione del reale. Una percezione che si potrebbe definire “tautologica”, proprio perché coincidente con l’oggetto percepito. Considerazioni analoghe a quelle che ritroviamo anche in Nietzsche e in diversi filosofi di area francese come Vladimir Jankélévitch e Clément Rosset. 

Pasolini sentiva chiaramente l’incontenibile ampiezza quasi eversiva che la musica gli offriva, ma al tempo stesso avvertiva anche la difficoltà nel poterla gestire fino in fondo con i suoi strumenti linguistici: il pensiero, la parola, l’immagine. Così esclama sconfortato negli Studi sullo stile di Bach: “che non esista una lingua per la musica è una constatazione scoraggiante”. 

Considerazioni che si ricollegano ad un altro aspetto del legame musica e parola, quello che non riguarda la parola che commenta, riflette, analizza, bensì quella che si unisce alla musica nel canto. Pasolini sapeva bene che quando la musica convive con la parola attraverso il canto, essa mostra, per le medesime ragioni prime accennate, la sua opposizione ad ogni finalità denotativa del testo cantato determinando così un apparente conflitto tra senso e suono, antica e ben nota questione filosofica. Una tensione che Pasolini coglie con estrema lucidità in un suo breve scritto dedicato al cinema intitolato Il cinema e la lingua orale 

“È il suono (pronunciato a voce alta o sentito nella testa, così come un musicista sente la musica leggendo lo spartito) che deraglia, deforma, propaga per altre strade il senso. Ora la musica applicata alle parole non è che il caso limite di quanto ho detto. La musica distrugge il «suono» della parola e lo sostituisce con un altro: e questa distruzione è la prima operazione. Una volta sostituitasi al suono della parola, provvede poi essa a operarne la «dilatazione semantica»: e che po’ po’ di dilatazione semantica si ha nelle parole della Traviata! Se il suono della parola «nudo» può dilatare il senso della parola stessa verso le «nuvole», e creare qualcosa che sta tra il significato «corpo denudato» e il significato «cielo nuvoloso», figurarsi cosa può fare, della stessa parola, un do di petto!” 

In apertura, quando si riferisce solo al suono della parola vivente che pronuncia il verso poetico, Pasolini coglie quel suono come un’azione che deforma il senso, il concetto, alterando ciò che si vorrebbe stabile nella parola scritta al di là della mutevolezza del dato sensibile. Se questa mutazione avviene nella semplice pronuncia di un verso, una vera e più profonda metamorfosi si manifesta quando il suono della parola diviene canto. Pasolini con questa descrizione è come se riconoscesse l’inevitabilità di un destino al quale il verso poetico deve necessariamente sottomettersi quando si trova unito alla musica. Un processo che non rende la parola e il suo “senso” un oggetto superfluo superato dal “suono” musicale, ma, al contrario, proprio con la musica, quel verso ha finalmente l’opportunità di deragliare dai vincoli della propria sintassi acquisendo quella che Pasolini chiama una “dilatazione semantica”, “e che po’ po’ di dilatazione”, afferma il poeta con ironia. Con la musica, la parola è come se fosse trasferita in un altro dominio linguistico, quello musicale, ed anche quando è resa totalmente irriconoscibile da un canto lirico, dalla vocalità estrema di un acuto, come il do di petto citato, essa esce dal dominio dell’intelletto per divenire qualcosa di più. Smarrisce e supera la dimensione rappresentativa per divenire una sorta di testualità del reale. Pasolini definiva la musica come “parole tutte parole e nulla significato”, ed è proprio in queste “parole tutte parole” che la parola poetica, dilatatasi nel suono musicale, ha per Pasolini l’opportunità di rigenerarsi, di ricrearsi aprendosi così, come l’immagine musicata nel cinema, verso le “profondità senza confini della vita”.