La Nuova Peredelkino | Filosofia dell’interpretazione musicale

Filosofia dell’interpretazione musicale in quindici puntate
Decima puntata

Uno spettro si aggira per l’Europa, soprattutto tra artisti e pensatori: lo spettro dell’utopia. Oggi, in questi giorni drammatici, il fantasma è più che mai presente: aleggia come un dover essere, come una guida per l’uomo, come miccia pronta a esplodere, come carica rivoluzionaria, come urgenza di nuova comunità.

Il suo ectoplasma è generato in Europa, madre di molte generose utopie, fucina sempre viva del pensiero: raccoglitore inquieto di molte istanze, pestello che aiuta le idee a infrangersi l’una sull’altra, a confondersi, spandendo nuovi profumi.

Quale Europa? Riguardo a questo specifico aspetto, un’Europa amplissima, che accoglie istanze ebraiche in primissimo luogo, che non dimentica l’eredita greca metabolizzata dal mondo russo-bizantino, oltre che dal coté occidentale del nostro Diwan.

E dunque? proprio oggi si parla di utopia che unisce artisti e filosofi d’Europa? Oggi che è stata scatenata una guerra vera e terribile in uno dei suoi centri propulsori di arte e pensiero? Sì, oggi più che mai. Lo spettro benefico fortunatamente si rigenera, e assume le sembianze di un oracolo che indica, senza dire, ma mostrando, di là dall’orizzonte, una sorta di terra promessa.

Qualche tempo fa il pianista Valentin Malinin (n. 2001: giovane e interessantissimo artista) aveva annunciato con una certa commozione la rinascita di Peredelkino, città russa di artisti e poeti. Oggi i russi, in quanto russi, sono esclusi da competizioni internazionali, da convegni e congressi. Ci sia chiede se sia giusto. Cosa è l’arte musicale senza i russi?  Non vogliamo dire che non esiste: tutt’altro – né che ci sono solo i russi. Vogliamo dire che non vogliamo farne a meno. 

Solo in omaggio a un residuo di umanità, che non deve abbandonarci ora, ecco che osiamo proporre la nascita di una Peredelkino ideale, in cui converga la speranza, e il senso dell’uomo.

Esiste? Può esistere? Difficile dare una risposta esatta alla domanda. Potremmo dire che esiste se la facciamo esistere, se ne nutriamo le radici: che sono eutopiche, più che utopiche per principio, ovvero alludono a una città buona, più che a una città impossibile.

Ebbene, chi entra in questa città, da chi è fatta, costruita, immaginata, abitata, sorvolata, sognata?

Abbiamo molti esempi di utopia in musica: utopici sono, per esempio, gli Studi Trascendentali di Liszt. Senza dubbio, l’opera forza i confini di un pianismo collaudato e già esistente dirigendo l’immaginazione di chi compone e di chi suona verso traguardi espressivi visionari e metafisici, spesso impossibili. E’ il tipico esempio del pezzo che apre futuro.

Più in profondità: certo è utopica la Nona di Beethoven. Persino il suo impianto scenografico allude già a un mondo nuovo, incorporando l’umanità intera nella Sinfonia come forma e nel concerto come evento; e i contenuti musicali e poetici uniscono l’interno genere umano in un sogno cui non si può rinunciare, che tocca alla musica ribadire, statuire, far essere: Alle Menschen werden Brueder.

E’ utopica la sua realizzazione da parte della West-Eastern Divan Orchestra che guidata dalle idee di un palestinese e di un israeliano (Edward Said, Daniel Barenboim – qui vi accenniamo soltanto: troppo grandi per discuterne con superficialità) compie il miracolo di raccogliere allo stesso leggio ragazzi stradotati israeliani e palestinesi. 

Il “miracolo”, incarnazione di una eutopia che dice della necessità e della possibilità dell’utopia, è realizzato in Erez Isra’el – un Isra’el pensato utopicamente, come vorrebbe la filosofa Donatella Di Cesare; cioè come popolo depositario di un compito: abitare la terra come non-propria, da Stranieri residenti.

Vogliamo leggere pagine davvero commoventi  e lucide in proposito? Tutto il libro Stranieri residenti è dedicato a questo tema e parte dal presupposto biblico di una terra che non appartiene all’uomo, ma a Dio – e la cosa rimanda a complessi rapporti tra l’idea stessa di politica e l’idea di suo riferimento ultimo.

Nel difficile libro Israele. Terra, ritorno, anarchia, Di Cesare offre una egregia combinazione di visione filosofica matura, storia e politica, lette con singolare vigore speculativo e notevolissima carica umana.

Ebraicamente: l’utopia è ciò che mantiene vivi nella diaspora. E’ abito mentale, è domani a Gerusalemme. E’ ciò che rende possibile la traversata nel deserto.

La figura di Gustav Landauer qui colpisce per la sua radicalità: ebreo, anarchico, viene ucciso nel 1919. Ne La Rivoluzione egli dedica parole profonde e visionarie, oltre che al pensiero anarchico, proprio all’utopia. Necessaria alla vita, l’utopia ha il potere, quando si incarna, di inverarsi, e trasformarsi in topia: ma per poco, perché lo spirito utopico è più forte delle proprie stesse realizzazioni, e tende sempre di nuovo verso la negazione del topos in favore dell’atopos. Così la storia stessa è leggibile come un susseguirsi di topie e utopie.

Dunque utopia come carica propulsiva straordinaria, e atopia, in certo senso, come condizione del filosofo: sì, Di Cesare vi ritorna ne La vocazione politica della filosofia sostenendo, tra l’altro, che il filosofo è atopos per natura, scelta, vocazione: non solo in quanto (già vi aveva insistito Hannah Arendt) il pensiero rende atopici, ovvero fa dell’uomo-che-pensa la bisettrice tesa tra passato e futuro, capace di astrarsi dal luogo e dal tempo propri in ragione della capacità di sprofondare nel pensiero stesso: ed è così che l’atto del pensare raccorda passato e futuro (altrimenti inattingibili entrambi, nella loro abissalità), e dunque apre il tempo e lo propizia e lo significa. No, non solo: ma anche perché lo svincolarsi dal luogo è atto che fonda la libertà del genere umano.

Emanciparsi da appartenenze limitanti, essere in cammino. Sentirsi itineranti: ecco il compito e lo statuto esistenziale e speculativo del filosofo, e l’eredità ebraica che questi incarna.

Ci chiediamo: l’artista più itinerante di tutti – il concertista, e probabilmente l’attore – ha ruoli futuri nella Nuova Peredelkino?

Sì, questa Peredelkino è tutto il mondo; fare Peredelkino è lottare contro la barbarie con le armi del pensiero e della buona didattica. 
Fare Peredelkino significa provocare e vivere una nuova alleanza tra compositori e interpreti e pubblico.

Più profondamente: fare Peredelkino significa probabilmente anche riconoscere all’artista il pieno diritto di partecipare alla storia, e di cambiarla. Significa riconoscere nell’arte eseguita e condivisa un grande motore politico, nel senso originario e nobile del termine, da intendere bene. La forza del pensiero espresso, la forza del metalinguaggio musico-teatrale crea comunità e ci rivela a noi stessi, e indica strade,  e dice di vocazioni latenti del mondo.

Grande eresia, questa, non ancora concessa impunemente soprattutto all’artista interprete: se questi si azzarda a esprimere posizioni politiche viene zittito di regola,  e forzosamente incapsulato in un dicitur di cui l’artista è funzione intrattenitiva, cultural-museale e fondamentalmente innocua. 

Ti paghiamo per sentirti suonare!“- fu il commento a scena aperta di molti avventori della Scala allorché Maurizio Pollini lesse, negli anni ’70, un comunicato firmato da Luigi Nono, Claudio Abbado e altri, dichiarando, prima del concerto e già sul palco, posizioni politiche e diritto-dovere di partecipazione organica alla vita pubblica da parte degli artisti. Commovente è poi la posizione di Krystian Zimerman, già estremamente critico nei confronti del governo statunitense che piazza basi e missili in Polonia: il suo “giù le mani dal mio paese” – molto più che una mera opinione personale, è dichiarazione di visione del mondo e del futuro, non limitata nemmeno alla sola Polonia – porta Zimerman a decidere di non esibirsi mai più negli USA per protesta: una protesta oggi sostanzialmente sottaciuta, ma che il pianista dichiara di avere esplicitato in quanto sensibilizzato da una conversazione con la figlia Claudia: “Papà, sei artista, ma non cambi il mondo“. Da qui l’impegno del grande pianista a dire e a prender partito per l’uomo. Oppure, a seconda dei contesti, l’artista è percepito come organo espressivo dello status quo, e a questo patto tollerato (è il filosofo Luigi Pareyson a esprimersi in proposito: con un rigore ermeneutico formidabile egli conduce il lettore ad apprezzare la differenza tra artista\filosofo che è storia e artista\filosofo che ha storia: il primo pratica un pensiero espressivo della propria epoca e del proprio contesto; il secondo è capace invece di pensiero rivelativo che è approccio autentico alla verità, sempre mediato dalla persona – e verità è esecuzione, è interpretazione. Luigi Pareyson, Pensiero espressivo e pensiero rivelativo, in Verità e Interpretazione, Mursia, Milano 2008, pp. 15 – 31).

No, bisognerà recuperare la follia atopica di Kreisler secondo Hoffmann, l’inquietudine di Chamisso, l’itineranza di Ione, lo spirito girovago dei King’s Men di Shakespeare.

Oh, abbiamo ben donde sperare, e illustri precedenti! Appunto i King’s Men, per esempio: secondo la storica Frances A. Yates si tratta qui della virtù peculiare dell’arte eseguita. In forza dello spirito itinerante degli artisti, ecco che una umanità nuova, plasmata alla luce di valori musico-poietici nuovi, fu pensata, concepita e propiziata in quegli anni. Possiamo trovarne notizie nello splendido L’Illuminismo dei Rosacroce, libro rigorosamente storico che disegna tra l’altro una moderna idea di Europa concepita all’inizio del Seicento: veicoli viventi di tale idea, che si sostanzia di pace e dunque di nuova pedagogia filosofica e musicale, sono giusto gli artisti: musici e attori. Girovaghi per vocazione, portano e diffondono attraverso l’evento onnicomprensivo della rappresentazione (che è sempre teatrale e musicale, ove la musica qualifica e sostanzia di sé i momenti topici) il sogno di un mutamento antropologico generoso, che bandisce gli assolutismi, pratica una pia religione laica ed ecumenica, forma giovani menti e le apre alla storia e a un concetto audace di magia pratica. Questa non è altro che la sapienza filosofico-artistica spinta all’ennesima potenza, con tutto il suo potere trasformativo: potere che emana soprattutto dalla rappresentazione pubblica nel suo complesso, carica di motivi subliminali.

Tale potere subliminale, tale carica pedagogica rinveniamo anche nella progettazione di numerose città ideali. 

Capitolo interessante, questo, e antecedente al Seicento: la più famosa è la Città del Sole di Tommaso Campanella, atta a raccogliere influssi astrali altissimi.

Ne troviamo disamina interessante in molti luoghi: ma segnaliamo di nuovo Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica (Biblioteca Storica Laterza, Bari 2010, pp. 258; 403-434). La studiosa di Warburg marca giusto questa volontà di incorporazione del cosmo nella città, che è cosa del massimo interesse e che risponde a un lungo sogno, capace di giungere sino a Skrjabin.

D’altra parte anche il Teatro – ovvero proprio il suo frons scenae – è un piccolo cosmo ideale, con un suo proprio cielo, con una disposizione delle costellazioni spesso francamente eretica e illuminante: topos piuttosto frequente è, per esempio, il tetto del mondo (calato nella sala) come carta astrale completa, ma rovesciata rispetto alla sua solita rappresentazione. L’idea del rovescio del mondo allude a forme complesse di rivoluzione culturale, oltre che a notevoli intuizioni astronomiche*.

Vi sono però altre Città ideali: Christianopolis, per esempio, progettata dal medesimo autore delle Nozze Chimiche – Johann Valentin Andreae. Giusto Le Nozze si aprono con la ricezione di un invito, da parte dell’iniziando più importante (il leggendario Christian Von Rosenkreutz) in forma di lettera: questa, consegnata da una figura femminile che appare al giovane durante il pranzo di Pasqua – è un pio uomo – reca il sigillo della Monas Hieroglyphica a mo’ di firma: Monas che comprende i simboli di tutti i pianeti sintetizzati in una sorta di figuretta umana. E’ all’uomo, difatti, che spetta il compito di sintetizzare il cosmo tutto. E la sintesi vivente, dinamica, poietica, avviene attraverso un’arte rappresentata e letteralmente intrisa di sapienza filosofica e astrale e musicale (ripetiamo: il sogno, intercettato da Leibniz, giunge intatto sino a Skrjabin). Sintomaticamente Christianopolis è città dalle misure identiche a quelle del tempio di Salomone –  residuo pitagorico resuscitato dagli umanisti italiani ed europei (ma anche volontà di sintetizzare il meglio delle religioni abramitiche e della filosofia greca); consta di diversi piani di cui l’ultimo è una sorta di osservatorio astrale in guisa di tempio atto a raccogliere ed emanare grandi influssi divini. L’apice della città è presieduto dai pii sacerdoti, e le mura di ogni edificio, giù nella parte abitata, sono istoriate riccamente, a significare e trasmettere, attraverso una pedagogia subliminale che bombarda beneficamente gli abitanti a ogni passo, una educazione nuova e perenne e dolce. Entrare in questa città significa esporsi a ogni genere di influsso perfetto: la musica vi ricopre un ruolo fondamentale, essendo onnipresente; la città – viene detto – è grata agli angeli, sonora com’è, e sempre illuminata a giorno – e la luce è amica del Divino e da lì discende. Questa è vera utopia, come si vede: ma generosa e grande!

La città è nucleo di sapienza che si spande fuori dalle mura cittadine e riversa i propri cori di luce e musica, e vera filosofia e utile scienza, in tutto il mondo.

Nuova alleanza tra uomini, sapienza e approccio pio e insieme scientifico alla Natura, pensata sempre come emanazione di Dio stesso: ecco i pilastri dell’utopia che regge la concezione di altre città ideali. Anche i nomi sono davvero sintomatici. Antilia, per esempio: è il contrario (ant-) di ogni isola (o terra, o selva – che la si consideri nell’esito francese isle o nel greco hyle, o ancora nel radicale pregreco che presiede alla formazione della parola Ilio) a noi nota. Macaria: è l’isola dei Beati. E vale la pena di citare la grande Maria Zambrano che ai Beati consacra il titolo di un’opera filosofica molto enigmatica, fatta di brevi aforismi di intensa profondità speculativa, e capaci di vibrare solidalmente a un non-detto molto ampio.

E il nome di altra isola è Laputa, con evidenti legami alla ricerca del Lapis Philosophorum.

Discorso, questo, amplissimo, che meriterebbe approfondimenti ulteriori, eccome: ma non dispersivo rispetto all’assunto nostro iniziale, anzi, appropriato.

E’ possibile pensare a una Nuova Città ideale? Ha senso?

Praticare l’Utopia in questa precisa e amplissima ottica – un rinnovamento antropologico tutto da propiziare – ha un significato, oggi? Ed è nelle cose?

Prima di lasciare l’interrogativo aperto sul mondo di oggi, ecco un riferimento a noi più vicino, e vicino soprattutto alla vera, storica Peredelkino, punto di raccolta ideale di molti artisti sovietici.

La pianista russa Maria Yudina (1899 – 1970) e l’umanità che la circonda (Boris Pasternak, Anna Achmatova, Dmitri Shostakovic,…) sono uno strano miscuglio di tragedia, eroismo, utopia. Lei è al centro di una serie di scelte, relazioni, posizioni, francamente scomode e, di nuovo, utopiche. 

Grande artista e donna coraggiosissima, Yudina conduce un’esistenza completamente consacrata allo spirito, che in lei si palesa e si esprime attraverso l’arte; ogni esecuzione è una offerta musicale, nel senso profondamente religioso del termine. La tensione è verso Dio, ma anche verso il popolo, e Yudina conosce e vive, misticamente, i tratti e le sofferenze dell’uno e dell’altro.  Di famiglia ebraica, si converte alla religione cristiana ortodossa a diciannove anni (nel 1918, in piena rivoluzione), probabilmente attirata dall’idea del sacrificio estremo, di una teurgia ritualistica forte, di una mistica femminile intensa, di Dio anche uomo. Visse sempre in povertà assoluta; famosa la sua replica a Stalin che, colpito dalla sua interpretazione di Mozart, le aveva inviato ventimila rubli (anche in risarcimento di una vita di stenti cui Yudina si era votata dichiarando la propria appartenenza religiosa): Yudina risponde per iscritto al dittatore che lo ringrazia e che ha già devoluto la somma alla chiesa che frequenta; e che pregherà per lui, dato che che i suoi peccati sono tanti, “giorno e notte”.

L’assoluta trascendenza della sua figura di insegnante traspare attraverso le parole di Schnittke e di alcune sue allieve.

Tra le preziose testimonianze che il documento qui condiviso porta con sé notiamo questa, che prego di attingere direttamente dalle parole di Svjatoslav Richter (min. 16).

Il Bach di Yudina è sublime, tutto quanto; un meraviglioso esempio: la sua Fantasia Cromatica e Fuga

e incredibile il suo impegno nella musica contemporanea: è straordinaria l’implacabilità e l’umanità del suo Shostakovic, del suo Krenek.

E quell’op. 106 di Beethoven! Mai sentita così carica di fiducia e forza, e di accenti pieni di umanità e speranza, e così ricca di dinamica dello spirito… Sempre protesa in avanti, sul filo di un’ispirazione che non viene mai meno. Qui lo straordinario Adagio sostenuto:

Ecco, Yudina è forse un esempio particolarmente sublime di utopia vivente: quel luogo non è ancora, ma sarà; e il luogo è l’uomo, l’uomo di tutto il mondo: che non deve scegliere tra esser fedele alla patria ed essere religioso, o tra l’esser comunista e venerare i prodotti dello spirito.

Lei stessa è sempre l’uno e l’altro versante: è l’una e l’altra ragione, l’una e l’altra promessa di vita. E’ ebrea e ortodossa; è combattente vicina al popolo e mistica; è donna e uomo; è gatto, è pianta; è dolore, gioia, sofferenza, speranza: e perciò ogni sua esecuzione sollecita ognuno a una particolarissima elevazione.

Cosa dire oggi dell’utopia che riguarda il senso dell’uomo, dell’arte che non ha confini, del pensiero che porta avanti la storia?

E’ possibile addensare umanità attorno a ideali condivisi, oggi, tempo di guerre a noi così vicine, che affliggono popoli cui dobbiamo tanto?

E’ possibile pensare a una rete dialogica che fondi davvero la nuova Peredelkino, città immateriale e realissima, che sa avvalersi di nuovi mezzi di comunicazione in modo virtuoso e costruttivo, trasformando – sarebbe davvero un sogno – la tragedia in occasione?

Chi può fondare e far vivere la Città – una città disseminata per il mondo, policentrica, diasporica, svincolata dalla tirannia e dalla seduzione del possesso – se non i grandi sollevatori di emozioni e i veicolatori del Bene? E il Bene non è significato e perseguito da quei folli cari al divino che sono gli artisti e i filosofi ispirati?

Dunque, con tutta la sobrietà del caso, osiamo dire: Pensatori, Musicisti, Attori, Artisti, Pittori, Folli di tutto il mondo: unitevi! Facciamo in modo che l’alba del nuovo giorno si avvicini e sia radiosa. Quantunque, purtroppo, non sia affatto “un’alba inevitabile” – per nulla: molti rischi si palesano chiari – è però, e nonostante la morte e la vita, come dice Ungaretti, tutta da propiziare.

 

*[La carta astrale tradizionale ha il segno dell’Ariete in prima casa, il mezzo cielo in Capricorno, l’imum coeli in Cancro. Ebbene, questa architettura risulta ribaltata spesso nel suo contrario: è il Cancro a trovarsi nel punto più alto dell’oroscopo – in omaggio, forse, a una logica mitica e stagionale più aderente alla realtà, e il suo opposto a trovarsi nella sezione cosmica invernale e nascosta; molto sarebbe da aggiungere proprio riguardo a una valutazione nuova dell’uomo, il cui compito è connettere e significare tutto quanto il cielo.

Quanto poi al segno del Cancro, lunare-solare, esso fa ingresso nel giorno di Demeter e Core, e ciò lo rende potente: il suo simbolo è collocato, per esempio, sulla bandiera di un corteo di navi in atto di fare ritorno da una mistica visita presso un’isola sconosciuta – esattamente l’Isola che non c’è – ma la cui realtà è ben viva e sperimentata dai visitatori: visitatori scelti, e ispirati dallo Spirito Santo. Quella terra è sede di sapienza scientifica altissima, di grandi sperimentazioni tese al bene dell’umanità. La sapienza ha radici non scisse dal mondo alchemico e astrale, e prepara l’avvento di un Illuminismo rischiarato da rizomi speculativi profondi, di tipo magico. 

Altra novità: la rivalutazione della personalità saturnina.  Tradizionalmente associato al disturbo umorale della bile nera, il tipo umano dominato da Saturno in epoca neoplatonico-rinascimentale muta di segno: è considerato capace di concentrazione massima, di severità, di stasi apparente che precede il volo: saturnino è il volto e l’atteggiamento di Melencholia I di Duerer, secondo Yates angelo sprofondato in una forte concentrazione filosofico-artistica, che moltiplica le facoltà. Non si attende più, dunque, la fortuna concessa dal facile Giove, ma si valuta in modo nuovo l’introversione, già preromantica, che inciderà su figure come il Penseroso e il Malinconico, puntelli della nuova arte. Costoro sono già interpreti musicali e filosofi a tutto tondo. 

(Per approfondire e rivenire le illustrazioni qui citate:   F. A. Yates: L’Arte della memoria; Kabbalah e occultismo nell’età elisabettiana; L’Illuminismo dei Rosacroce; Gli ultimi drammi di Shakespeare; Giordano Bruno e la tradizione ermetica. Alexander Roob: Alchimia e mistica)].