La musica come avverbio di modo del pensiero: la riflessione di Vladimir Jankélévitch (prima parte)

Senza dubbio numerose sono le testimonianze biografiche che dimostrano l’attenzione e l’avvicinamento di Vladimir Jankélévitch (filosofo e musicologo ebreo di origine russa nato Bourges il 31 agosto 1903 e morto a Parigi il 6 giugno 1985) al mondo musicale.

«Ho studiato quando ero piccolo con una zia venuta dalla Russia che mi bacchettava sulle mani dicendo: Arrtikioule! Arrtikioule!» – confessa Jankélévitch. E ancora: «Tutti i bambini degli ebrei russi andavano in conservatorio. L’idea era di farne dei virtuosi. Gli ebrei russi erano una popolazione particolare in cui i valori artistici dominavano. L’ideale era di essere pianisti o violinisti. Non si preoccupavano dell’ortografia!» Il filosofo ricorda pure: «Ho cominciato a suonare il piano di nascosto, quando mia sorella maggiore, che era già una virtuosa, non c’era», e ammette: «La musica è la metà della mia vita e io so cosa non è per me: un passatempo, ma è piuttosto una forma di esperienza dell’ineffabile, io dimentico tutto…». Tutti i giorni Jankélévitch dedicava ore alla lettura estemporanea al pianoforte, a tal proposito scrive: «Al piano io sono semplicemente un lettore. Suonare il piano, per un lettore, è soprattutto decifrare. […] Decifrare esige uno spirito di improvviso e di estemporaneità, una celerità e una presenza di spirito imparentate all’occasionalismo dell’improvvisazione; esso implica la passione della scoperta. […] Quando suono, io sono in uno stato di innocenza completa. Il tempo è un campo indeterminato, senza frontiere, che ci inviluppa, e il tempo nudo è la noia. La musica è il miglior rimedio alla noia, cioè alla temporalità informe e nebulosa […] la musica è dello stesso ordine del tempo, è una temporalità incantata: il tempo è incantato dalla musica».

Jankélévitch aveva inoltre una favolosa biblioteca musicale che si trova ora alla Biblioteca nazionale di Francia (curata da Françoise Schwab e Jean-Marc Rouvière). Addirittura proprio Françoise Schwab riporta la notizia che il compositore Darius Milhaud alla ricerca di una partitura introvabile esclamò: «Jankélévitch ce l’ha sicuramente!». Difatti il filosofo era un avido collezionista di partiture, che ammassava lungo le mura del suo studio e che arrivavano fino al soffitto. Ma la musica non era solo questo, non era solo un vezzo da collezionista oppure una passione che si sfociava spesso in opportunità lavorative (nel 1944 fu incaricato di dirigere le trasmissioni musicali di Radio Toulouse-Pyrénées: «la musica – per lui – non è che l’altra maniera di esprimere un pensiero filosofico».

Tra le domande che agitavano la coscienza di Gabriel Fauré, negli anni in cui stava abbozzando il secondo movimento del suo primo Quintetto ce n’è una che Jankélévitch fa sua: «Quante volte è intraducibile il punto in cui si è, quello verso il quale si pensa di avanzare. E quante volte mi domando a che cosa serve la musica? E che cos’è? E cos’è che vi traduco? Quali sentimenti? Quali idee? Come esprimere quello di cui io stesso non posso rendermi conto!». Il compositore, infatti, si trova nella posizione di chi sta creando musica, ma non sa che cosa essa sia, e neppure se essa sia qualcosa. Questa interrogazione diventa la base teorica scelta da Jankélévitch per il suo testo La musique et l’ineffable, uno dei suoi scritti più irriverenti e paradossali, orchestrato attorno alla più semplice e alla più complessa delle domande: che cos’è la musica? La musica per il musicologo è l’ambiguità, l’anfibolia, lo scandalo, l’equivoco per eccellenza, è un je-ne-sais-quoi, un Nescioquid indescrivibile, non è propriamente una ‘cosa’ eppure agisce sull’uomo, è lo charme che si diffonde come un profumo nel tempo. Come dimostra Enrica Lisciani Petrini, interprete del pensiero jankélévitchiano, il termine charme innanzitutto è il risultato di un insieme di significati antichi. Lo charme evoca in principio l’etimologia latina Carmen, il riferimento è quindi ad una composizione prettamente poetica, ma anche ad un rito incantatorio o formula magica. In breve, nell’uno e nell’altro caso, il significato mostra qualcosa che ha a che fare con l’incantamento, la seduzione, la magia (si pensi alla Carmen di Bizet). Ma lo charme deriva anche e soprattutto dalla parola greca charis, traducibile con “grazia”, nell’accezione classica di donazione disinteressata, non venale, non commerciale, non appropriativa, ma al contrario senza ragione, quindi gratuita (termine impiegato in particolare da Plotino per indicare la qualità sconosciuta che sfugge a tutte le localizzazioni o esplicazioni cioè “senza perché e senza ragione” e che caratterizza propriamente il bello).

Se si potesse dare una consistenza sonora allo charme sarebbe, per Jankélévitch, senz’altro la melodia della Ballade in fa diesis maggiore di Fauré: «La Ballade, espressione di “ovunque e in nessun luogo”, remota e prossima, può così diventare quasi un’eco della nostra giovinezza andata, o una voce amichevole, la voce del ricordo irreversibile che sussurra all’orecchio del nostro animo, allorché scende la sera, cose segrete e indicibili. Sì, ogni uomo può riconoscersi in quest’opera fatta di uno charme quasi inesistente, e nel turbamento incomprensibile che essa arreca. La musica non consisterebbe proprio in questo?».

Come lo charme è un profumo quasi evanescente che inebria di sé il tempo in cui si diffonde ed evapora, essendo perciò nient’altro che una “cosa mentale” , e non deriva da quel soggetto o quell’oggetto, ma trascorre dall’uno all’altro come un flusso o un effluvio magico, così la musica non è propriamente in quell’accordo, in quella cadenza, in quella particolare modulazione, né nel compositore, nell’ascoltatore (ricreatore passivo) o nell’esecutore (ricreatore attivo), bensì nell’atto stesso del Fare musica, nell’istante imponderabile in cui le note invadono l’aria vibrante per un certo lasso di tempo, tempo prezioso sia per il compositore che mette in opera la musica, creandola, sia per l’esecutore che la fa vivere riproducendola, ma soprattutto per l’ascoltatore, senza cui probabilmente non avrebbe modo di esistere perché egli stesso, ricreatore in terzo grado, coadiuva l’operato dei primi due, attraverso la sua immaginazione, la sua capacità ricettiva, e l’abbandono necessario al potere fascinatorio della musica. «La musica non esiste in se stessa, ma solo in quella pericolosa mezz’ora in cui, suonandola, la facciamo essere» – scrive, a ragione Jankélévitch, sottolineando il divenire Atto, della musica, il suo essere un’operazione temporale prima che musicale o creativa, l’aver luogo, non nel senso topologico-localizzativo, bensì nel senso di accadere effettivamente secondo coordinate spazio-temporali ben precise, essendo legata ad un evento storico particolare, come ad esempio un recital pianistico o un concerto, e di conseguenza ad un luogo ben determinato e un orario ben preciso di esecuzione. Nella sua straordinaria ineffabilità, la musica «non è fatta perché se ne parli, ma perché la si faccia; non è fatta per essere detta, ma per essere “messa-in-opera”».

Nel tessuto filosofico jankélévitchiano, se il Tempo può essere considerato come l’ordito, la Musica ne è senz’altro la trama; ma come non si può pensare il Tempo senza essere nel tempo, essendo il tempo consustanziale al pensiero, così non si può pensare la Musica, se non nella musica, o musicalmente: «nessuno in verità pensa sinceramente alla musica: non si pensa alla musica stessa, o all’essere stesso della musica, più di quanto non si pensi il tempo – chi crede di pensare il tempo, nel senso di renderlo complemento oggetto diretto di un pensiero transitivo, di fatto pensa agli avvenimenti che sono nel tempo o agli oggetti che durano, pensa non al divenire puro, ma ai contenuti che “divengono” […]. Non si pensa “la musica”; per contro si può pensare secondo la musica, o in musica, o musicalmente – essendo la musica piuttosto un avverbio di modo del pensiero». E ancora: «non si dovrebbe scrivere ‘sulla’ musica, ma ‘con’ la musica e musicalmente – restare complici del suo mistero…». In tono tra il sarcastico e l’ironico aggiunge anche: «Oggi tutti parlano, dissertano, ragionano… E dato che anche noi, a nostra volta, abbiamo la pretesa di parlare dell’indicibile, parliamone almeno per dire che non bisogna parlarne e auspicare che oggi accada per l’ultima volta. La pretenziosa e intollerabile mediocrità di certe chiacchiere sulla musica ha qualcosa di deprimente. Non che la vera musicologia sia sospetta a priori, per il solo fatto di essere un’operazione secondaria: i più profondi musicologici di oggi sono compositori, o persone che praticano musica. Del resto la pratica e la teoria non erano già congiunte nell’opera di Rameau? Musicisti come Rimskij-Korsakov e Bartók, Dukas e Debussy, Schönberg e Stravinskij, hanno saputo riunire in loro stessi la lucidità speculativa e il genio creatore. Ma questa lucidità non ha niente in comune con la sterile pedanteria di una speculazione dottrinaria. Di solito, però, il creatore non ha che una sola maniera di riflettere sulla creazione: creare. In tal modo i suoi neologismi senza precedenti costituiranno un precedente».

La musica, dunque, diviene nel tempo, ma non può essere oggetto di pensiero: nel momento stesso in cui il pensiero pretende di fare del tempo il proprio oggetto di riflessione, esso gli sfugge; stessa cosa accade con la musica: l’attenzione che per anni si è rivolta ad essa, non è riuscita a coglierla nel suo divenire temporale ma, cristallizzandola, si è piuttosto occupata delle sue circostanze collaterali, analizzando partiture e strumenti musicali, bibliografie dei compositori, contesti storici nei quali sono stati concepiti i brani, e laddove il musicologo si trova costretto a dire: “Parliamo d’altro!”, l’ascoltatore ribadisce con forza: “Pensiamo ad altro!” In realtà chi vuole fare della musica l’oggetto del proprio pensiero, nasconde la paura di abbandonarsi spontaneamente al suo charme, e il rifiuto ad accettare che possa esserci qualcosa che eccede la ragione e che la ragione non può comprendere; come chi vuole conoscere il senso della propria vita, crede di doversene astrarre e si rifiuta di viverla, così chi pretende di afferrare il senso della musica, si tappa le orecchie e si rifiuta di ascoltarla! Jankélévitch è fermo sostenitore dell’assurdità dell’operazione di oggettivazione della musica, la quale, al di fuori del tempo in cui si dipana, non potrebbe esistere. La musica, infatti, non ha idee da raccordare logicamente le une alle altre, non ha a che fare con significati intenzionali, sensibile alle ripetizioni, non ha una forma preesistente. Mentre il lógos è basato su idee da raccordare logicamente, è portatore di un significato condivisibile, condanna le ripetizioni, ha sempre una forma.

Tutte le congetture proprie del linguaggio verbale, sembrano non valere in ambito musicale: la parola, ad esempio, deve essere portatrice di un significato condivisibile, altrimenti per gli interlocutori sarebbe difficile, se non addirittura impossibile, comunicare; inoltre gli interlocutori stessi sono costretti ad alternarsi nel dialogo, pena la confusione; tutto questo non vale per l’universo musicale in cui, a grandi linee, la polifonia può essere considerata come il luogo ideale di incontro e scontro di voci differenti, anzi, lo stile concertato è basato proprio sul mutuo accordo di parti regolate l’una sull’altra; non solo: a proposito dell’unità sistematica, bisogna considerare che la forma che si pretende di ravvisare in una composizione musicale, segno di una presunta intenzionalità dell’autore, non è che un’illusione; se è necessario che un discorso verbale abbia una forma per poter essere comprensibile, la stessa cosa non vale in musica: qui non sempre è possibile, dopo un’analisi accurata, attribuire uno schema; inoltre coloro che hanno voluto individuare uno schema, hanno potuto farlo solo con una visione retrospettiva, essendo la forma qualcosa di “mentale”, e non qualcosa di udibile, né – come osserva Jankélévitch – “tempo vissuto”: «Ora, chi non “dice” niente, a fortiori non può ri-dire». Ebbene, proprio a proposito della reiterazione, il filosofo sostiene che, se il logos condanna la ripetizione perché cerca la comunicazione della verità nuda e cruda, scevra cioè dall’insistenza ossessiva, volta invece ad affascinare, la musica ama l’innovazione, e in essa il ripetersi di temi o cellule ritmiche, nell’ottica di una riesposizione, non è mai monotono, ma è avvolto da una luce nuova, diversa; in musica, come in poesia, infatti, ciò che si pensa sia stato detto, non è mai detto una volta per tutte, ma sempre ri-detto e contemporaneamente dis-detto, essendo soggetto all’irreversibilità del tempo che fa di ogni momento, una prim-ultima volta, e di ogni singola nota, una prim-ultima nota. Il pregiudizio metafisico, riposante sull’analogia tra linguaggio verbale e linguaggio musicale, oltre a fornire erronee concezioni sulla musica, come quelle suindicate, si lega all’espressionismo e, alla continua ricerca di un appiglio razionale nell’irrazionale, di un approdo sicuro nel fluido ineffabile, arriva a credere che la musica esprima un senso, il quale deve, per forza di cose, preesisterle. Il problema qui, non è soltanto che la musica è vista come un linguaggio che “esprime” qualcosa; presupporre un “intelletto pilota” , infatti, porta alla teorizzazione di una meta-musica o ultra-musica: a precedere il fenomeno fisico-acustico, insomma, quello cioè udibile dall’orecchio umano, ci sarebbe una sorta di musica metafisica, inudibile, anteriore al compositore stesso e indifferente ad ogni espressione determinata, per cui la musica che noi udiamo non sarebbe che un suo ostacolo, un impoverimento. Ci sarebbe un’obiezione da fare al discorso jankélévitchiano, e l’obiezione non può che venire dalla musica a programma; per musica a programma si intende un tipo di composizione nata “programmaticamente”, o “intenzionalmente”, allo scopo di descrivere o narrare contenuti extramusicali; ma Jankélévitch, da grande esperto musicista qual era, non ha dimenticato di fare riferimento alle melodie e ai poemi sinfonici cosiddetti “a programma” in cui “il senso precede e la musica sviluppa in una fase successiva il senso di questo senso”; a tal proposito, infatti, egli ritiene che il senso dato in anticipo in realtà non si sviluppa che direttamente dalla musica, e la musica non fa che da tramite tra il senso e il senso del senso, anche perché quello stesso senso che si ritiene essere preesistente alla composizione, non può essere proposto che retrospettivamente: Jankélévitch ci sta semplicemente dicendo che se ascoltiamo per la prima volta il quinto pezzo dai Quadri da un’esposizione di Musorgskij non pensiamo immediatamente a dei pulcini che ballano, né, tantomeno, lo associamo al quadro di Hartmann – balletto dei pulcini nel proprio guscio – che lo ha ispirato; da qui ne deriva la caratteristica retrospettiva del senso musicale: «la musica quindi avrà acquisito il suo specifico significato e persino la sua metafisica a cose fatte, poiché sul momento non è mai possibile precisarne l’intento in modo univoco […]. Il senso della musica si presta unicamente a profezie retrospettive: la musica significa qualcosa solo al futuro anteriore!».

La musica più che indicibile è ineffabile. In breve, si potrebbe paragonare – insieme con Jankélévitch – l’indicibile ad uno strano ipnotismo capace di congelare, bloccare, pietrificare, laddove invece l’ineffabile è l’incantesimo, fecondo, ispiratore, affascinante. La musica, insomma, più che esprimere – diremo noi – una volta per tutte, non fa che esprimere all’infinito, perché l’ineffabile è un terreno immenso, tutto da scoprire, inesauribilmente; il mistero della musica sta non nel sottrarre continuamente un senso metafisico, che poi si pretende di attribuirle in maniera retrospettiva: la musica rivela il senso del senso stesso, e lo rivela proprio sottraendolo, «lo rende volatile e fugace nell’atto stesso di rivelarlo». E così come sul suo stesso senso, che è l’inesprimibile-ineffabile, non c’è niente da dire, perché c’è infinitamente da dire, così sulla musica niente si può “dire” e niente di definito è stato detto, perché è ancora tutto, continuamente, da dire, perché è ancora tutto, continuamente, da dis-dire. Ad ogni riga, la musica non è presa come oggetto fisso di uno sterile discorso, di una teorizzazione volta a privarla del suo fascino, che solo si diffonde nel tempo; le pagine jankélévitchiane risuonano della musica su cui egli stesso scrive, essendo il suo scrivere uno scrivere con la musica, o musicalmente, cioè nient’altro che scrivere contraddittoriamente, esprimere non esprimendo, dire e nello stesso momento negare ciò che si sta dicendo: si tratta, ancora una volta, dell’influenza esplicita che la teologia apofatica ha nella riflessione jankélévitchiana e che prevede la formulazione di due affermazioni contraddittorie, le quali, scontrandosi l’un l’altra, si elidano; per definire questa coincidentia oppositorum impalpabile che è la musica, non sarebbero, tuttavia, sufficienti infinite coppie di predicati che si affermano e si negano a vicenda: è per questo motivo che la filosofia della musica si configura come «una pericolosa scommessa e una continua acrobazia», la scommessa sta nel permettere alla musica di continuare a vivere anche nella dimensione scritturale, che tende per sua natura ad atrofizzarla, mentre l’acrobazia sta nella ricerca costante di un equilibrio tra la negazione della scrittura e il suo necessario utilizzo.