La musica come avverbio di modo del pensiero: la riflessione di Vladimir Jankélévitch (seconda parte)

A proposito di musicologia jankélévitchiana, è interessante considerare l’interpretazione che Carlo Migliaccio dà dei livelli di conoscenza (esposti in Philosophie prèmiere) in Jankélévitch, in chiave musicologica; egli infatti nel suo testo L’odissea musicale nella filosofia di Jankélévitch scrive: «come la filosofia si divide in Prima, Seconda e Terza, così si possono individuare a nostro parere tre diverse musicologie:

La musicologia terza, o musicologia empirica, cioè il puro ascolto anteriore a qualsiasi riflessione intellettuale sulla musica, prima di ogni analisi.

Si tratta dell’approccio ingenuo, a parte dei non-esperti. A questo livello la musica coincide con la pratica: da un lato per la sua complementarità con il lavoro umano (per esempio i canti degli schiavi o dei pescatori) dall’altro per il legame con il divertimento (la musica di consumo e di intrattenimento, ecc.), in cui il tempo viene vissuto in modo immediato e psicologico.

La musicologia seconda, o musicologia analitica.

É l’ascolto competente e specialistico. É la vera musico-logia, la scienza della musica e l’estetica musicale teorica. Essa cerca le relazioni tra gli elementi linguistici e stilistici, considerando i suoni, le armonie, i temi per il loro valore formale e le loro determinazioni causali. Spesso essa trova le sue spiegazioni nella teoria dell’armonia e del contrappunto. Il tempo si risolve nello spazio dell’analisi formale, poiché essa concepisce il tempo unicamente come successione di dati sonori schematizzabili, facilmente individuabili nella mera articolazione ritmica, nelle differenziazioni metriche e nell’organizzazione infraformale. È quindi musicologia quidditativa. In questa dimensione le risposte fornite dalle concettualizzazioni analitiche rimarranno sempre insufficienti e impotenti a spiegare l’essenza di quegli stessi elementi, accordi, ritmi e melodie, tra i quali l’analisi cerca di districarsi.

La musicologia prima, o musicologia quodditativa. É una specie di metamusicologia superiore, avendo essa a che fare con una forma e un tempo superiori: la forma della forma e il tempo del tempo. Essa non cerca il perché (quid) degli elementi musicale e del materiale, ma attesta il quod, il fatto del fatto, e considera le componenti musicali come delle situazioni; dei complessi, delle costellazioni da spiegare alla luce di un ordine sovralinguistico e sovrastilistico. É questo il livello metarmonico e metaritmico, l’armonia dell’armonia, il ritmo del ritmo, la cui determinazione concerne una temporalità non cronologica ma cronotetica. Ciò vuol dire che essa pone temporalmente il tempo, ossia l’autentico senso dinamico e propulsivo della durata (ritmo), della successione (melodia) e della simultaneità (armonia). Invece di segmentare in successioni discrete il continuum musicale, questa musicologia si pone di fronte all’evento musicale nella sua inesplicabile evidenza temporale, di fronte al fatto di vivere tra un silenzio iniziale e un silenzio finale, ossia di essere, come l’esistenza, un quasi-silenzio, un quasi-niente».

Da ciò deriva anche una triplice modalità di considerazione del rapporto tra tempo e musica (alla luce della duplicità semantica del tempo di origine prettamente greca tra kronos e kairos): tempo cronologico = leggi armoniche; tempo cairologico = principi extra-musicali (melodia, timbro, ritmo, contrappunto); terzo tempo = esecutore/ascoltatore.

Per comprendere il tipo di approccio estetico-critico jankélévitchiano alla Musica – posto che in Jankélévitch il dominio musicale è spostato sul lato del Fare Musica più che del Dire di Musica – bisognerà sicuramente tener presenti i suoi interessantissimi spunti di riflessione musicologica, alcuni dei quali saranno di seguito considerati. Anzitutto Chopin, la cui musica appare a Jankélévitch come moderna e dicotomica perché «riunisce in se stessa le due magie, i due charmes: calma e sconvolge; invita alla danza, al corteggiamento, ai giochi dell’amore, alle lunghe passeggiate e alle cerimonie; e ricorda all’uomo l’inevitabile tragedia che incombe su di lui» ma soprattutto «per il senso meraviglioso della sonorità che lo contraddistingue: la sensualità armonica, il gusto della materia vibrante, la dissonanza audace [l]a coincidenza di una forma squisita e di un cuore tormentato dalle tenebre della notte». O ancora Satie, il Socrate della musica, capace con la sua ironia brachilogica di «désenchanter l’âme enchantée»; tuttavia, dietro l’ironia musicale, il paradosso, i ghigni, le smorfie, nasconde una tremenda verità, che poi è quella tragica dell’uomo: «Nel farfugliare degli staccato, attraverso mille buffonerie, il vecchio poeta ci confida qualcosa di importante e di grave, ma questa confidenza vuole orecchie fini e un’anima attenta […], la lucida e prosaica ironia cela quindi proprio un mistero, un mistero alla luce del sole, un mistero meridiano occulto come i misteri della mezzanotte».

L’aspetto irriverente e ironico è ancora più evidente nella musica di Maurice Ravel, sul quale, nel 1939, Jankélévitch scrive una monografia. Se si potesse indicare con un solo aggettivo la figura raveliana nella speculazione filosofica jankélévitchiana, sarebbe, senza dubbio, “l’artificioso”: il compositore spinge l’impossibile oltre i suoi stessi limiti, attraverso la sua fervida, audace, magica e quasi demiurgica immaginazione; «l’audacia di Ravel s’esprime in primo luogo nella gioia di superare le difficoltà e nella ricerca ostinata di ciò che è arduo; poi nell’amore per l’artificio». Dal punto di vista musicale, tutto questo si traduce nella continua arbitraria invenzione di difficoltà, divieti, pur nell’assoluto formalismo, per il gusto stesso di superarli, mettendosi alla prova: «dal canto nostro preferiremmo definirla “un’estetica della scommessa” perché «in mancanza di difficoltà naturali da superare inventerà ostacoli fittizi, si fabbricherà a proprio uso e consumo interdizioni gratuite e imperativi arbitrari, impoverirà di proposito il proprio linguaggio, si porrà tutti i limiti possibili, si avventurerà in ogni sorta di contorcimenti, di stridori, di sberleffi, per sperimentare sino in fondo di cosa sia capace il mistero dell’artista». Jankélévitch ci presenta un Ravel perfetto nello stile, nella forma, ma paradossale nei contenuti musicali, come se all’improvviso, quasi per magia, spuntasse, dietro agli artifici e alla perfezione, qualcosa di funambolico, di meraviglioso nella sua irrazionalità, come se si potesse scoprisse una lacuna all’interno del sistema, così nascosta e profonda, da rendere quello stesso sistema razionale straordinariamente “umano”: «all’improvviso si è costretti ad accettare una conclusione assurda, senza capire come mai ci si sia arrivati, pur sapendo che dev’esserci una falla o un trucco; perché i dialettici non hanno mai torto nei particolari, pur non avendo mai ragione nell’insieme». Il virtuosismo raveliano, sintomo di un’intelligenza acuta e di un’eccellente padronanza dei mezzi a disposizione, pur essendo programmaticamente contrario all’espressione dei sentimenti, e, perciò, volutamente anti-soggettivo, si riscopre per contrarium espressivo, appassionato, sentimentale, romantico: la razionalità vuole rivestire con l’ironia dialettica le emozioni, ma è proprio quando tenta di nasconderle che esse emergono in superficie in tutta la loro innocenza: «Se la musica di Ravel esprime qualcosa, non lo fa mai di proposito. […] Ravel è profondo proprio perché è superficiale: ed è il prototipo della profondità limpida, quella di Vermeer e di Terborch, che s’identifica completamente con la precisione, ed è il contrario della profondità dialettica. […] Queste sono le apparenze che, oltre a mettere a nudo la falsa profondità, rivelano anche la profondità cristallina dell’ingenuità, […] poiché caratteristica dell’innocenza è d’essere profonda per il solo fatto che è, che esiste, e non perché sia allegoria o simbolo […], Maurice Ravel rappresenta l’innocenza. La sua morte ha segnato la fine della nostra innocenza».

Di improvvisazione si occupa anche Jankélévitch, intendendola come «ritorno del mediato nell’immediato», e facendo di questa pratica musicale un vero e proprio mistero del parto mentale perché si concentra, in particolare, sull’aspetto “nascente”, sul momento generatore, l’inizio dell’inizio, l’atto primordiale, l’Urgrund, della musica, l’istante in cui dal caos informe, dalla “nebulosa di questo gran disordine materno” , dalla notte dell’indistinto, si passa al deforme ed infine alla forma: «l’improvvisazione – come la creazione, l’invenzione o l’ispirazione – è un inizio: è lo stadio germinale o iniziale del canto, la musica nascente». È tutto lì il parto mentale, è tutta nelle mani dell’esecutore la capacità di plasmare il tempo, traducendo ciò che è nella sua mente in melodia diveniente, facendo in modo da trasformare il silenzio temporale in materiale sonoro temporale, che si crea e si ricrea, si perde e si ritrova continuamente, si genera e si rigenera da quell’unica nota nascente, la quale fa da soglia, da transizione, da limen tra la nebulosa incosciente, fucina di tutti gli oscuri possibili, e le forme diurne: ecco, «”l’idea” non è più fuori dal tempo e immacolata ma è divenuta»! Improvvisare in musica significa, dunque, improvvisare nel tempo, e plasmare la materia sonora caotica è, essenzialmente, manipolare il divenire temporale, occuparlo cioè con la propria estemporaneità creativa. L’interesse jankélévitchiano sembra dunque spostarsi dal fiat al fieri, dal prodotto finito all’operazione, dal manufatto al work in progress; non è un caso, a suo avviso, che l’epoca romantica abbia visto l’esplodere della pratica improvvisativa: «la curiosità per i problemi dell’origine e della genesi, così caratteristica di un’epoca che vide nascere il trasformismo, l’evoluzionismo e la metafisica del processo, non è estranea a tale indiscrezione. L’uomo romantico vuole sorprendere il messaggio rivelatore del genio e il “come” della creazione». L’improvvisazione ostentata divenendo parte essenziale delle rappresentazioni pubbliche, è la verità denudata, priva di orpelli, è la spontaneità che ha però solo l’apparenza di innocenza, perché in realtà è un gioco, un malinteso, è improvvisazione solo per finta. Jankélévitch sta qui desacralizzando il genio romantico, sta togliendo la maschera al virtuosista che dà mostra di sé, che rende essoterico uno dei momenti più esoterici per eccellenza, e cioè quello creativo. Nell’atto improvvisativo l’esecutore procede nel mondo dell’approssimazione, ricercando i temi da sviluppare attraverso differenti e misteriose combinazioni, in un gioco dialettico in cui il materiale quasi si dà, con una certa indifferenza si lascia cercare, perché, in fondo “l’improvvisatore non cercherebbe se non avesse già trovato.” L’ambito d’azione dell’improvvisatore non è illimitato ma ben determinato dalle possibilità tecniche dello strumento, o anche dalla tessitura (nel caso della voce) o dalle capacità della mano (nel caso dello strumentista), ma allora qual è il ruolo di chi improvvisa? Non si riduce forse a un «vecchio rimbambito» che deve semplicemente «girare la manovella»? In realtà il modo per uscire da una certa presunta meccanizzazione nell’azione dell’improvvisatore è proprio rivalutare l’istante pre-improvvisazione, che Jankélévitch definisce “Preludio”, inteso non come forma musicale ma come momento creativo germinale che precede l’atto improvvisativo vero e proprio: “il Preludio è questo cantiere di profezie cosparso di rovine, cosparso di abbozzi” ; si tratta, quindi, di un momento di transizione che vede da una parte il pianista, il quale, errando sulla tastiera, prepara l’atmosfera adatta alla creazione musicale, e dall’altra il materiale sonoro stesso, che ispira l’improvvisatore producendo in lui lo stato di grazia: tutto questo è perfettamente in linea con la circolarità di causa ed effetto di cui è promotore il pensiero jankélévitchiano. Se il Preludio è inteso come istante originario dell’improvvisazione, al preludio come forma musicale, ove pure è ravvisabile un aspetto tipicamente improvvisativo, Jankélévitch associa la Berceuse ed entrambi i componimenti non fanno che costituire le due facce di un’unica medaglia: il primo è legato al risveglio della musica, alla primavera musicale, la seconda, molto simile ad una ninnananna, è il suo contrario, perché caratterizzata da un ritmo cullante corrispondente al sonno della musica. A proposito delle caratteristiche fondamentali che fanno di un semplice atto creativo, un’improvvisazione vera e propria, il filosofo analizza il Portando, il Rubato e la Pedalizzazione; nel primo caso il riferimento è all’ambiguità del suono: l’estemporaneità della produzione improvvisativa non permette di avere un’altezza del suono fissa, identificabile con precisione, perché il pianista, nella sua erranza tra i tasti del pianoforte, produce un cromatismo che, essendo il suono fratturato nelle sue microstrutture, diventa la cifra identitaria dell’indeterminazione; il Rubato aumenta l’ambiguità del fraseggio perché lascia al compositore la massima libertà relativa ai tempi e ai valori delle note, conferendo al brano quell’imprecisione che lo caratterizza: «il tempo rubato, che è tempo “derubato” è il regime della semi-licenza o della libertà vigilata ; ad aumentarne l’ambiguità melodica e ritmica, ci pensa la “Pedalizzazione”: l’uso spesso abbondante del pedale confonde le risonanze e riunisce la frattura naturale generata dallo stato di verve dell’improvvisazione, la quale, da sola, produrrebbe un discorso frammentato e intermittente. Se dal punto di vista temporale, l’atto improvvisativo sembra nascere dal nulla, in realtà Jankélévitch ci mette in guardia: sia temporalmente che musicalmente, l’esplorazione è guidata da una certa “reminiscenza” melodica; la reminiscenza ovviamente è legata al ricordo di una melodia del passato che si pretende di far rivivere con l’esperienza improvvisativa, la quale, dunque, «non si esercita solo sulla materia vibrante, risvegliando l’ispirazione a contatto con lo strumento, ma si mette alla prova con i ricordi». Partendo da questo spunto melodico offerto dai ricordi, l’improvvisatore inizia la sua avventura sulla tastiera, un’avventura fatta di tentativi, rimaneggiamenti, false manovre, marce all’indietro, esperimenti, esplorazioni: improvvisare non è – lo abbiamo capito – seguire un metodo che permetta il “risparmio di tempo” , che faccia camminare con un’andatura svelta, precisa e regolare, la quale consente di arrivare dove si vuole, ma soprattutto nel minor tempo possibile; improvvisare non è ottimizzare il tempo, è piuttosto bearsi del proprio tempo, viaggiarvi all’interno, camminare senza la fretta di raggiungere la propria meta, perché, in fondo, la si sta già raggiungendo ad ogni istante; l’obiettivo primario è proprio quello: vivere il tempo, nel tempo! «La musica» – scrive a tal proposito Jankélévitch – «non è, come la dissertazione, un percorso per giungere a destinazione il più presto possibile: è una velocità che si gingilla o un bighellonare che si affretta, una lentezza per la velocità, una velocità che si attarda e che non va da nessuna parte. La deviazione è il percorso stesso: la musica, come la graziosissima e del tutto vana Leggerezza, consiste tutta in questa circonvoluzione senza mèta». Improvvisare è come passeggiare nel tempo, fare del mezzo di questa Promenade il nostro fine, del movimento stesso tra le note il nostro divertimento, è un modo tutto particolare per prendere “in giro” il tempo, non solo: si tratta dell’opportunità di disciplinare il tempo, di assoggettarlo all’alogicità della musica, senza lasciarsi governare da esso; “senza tempo, e anche “A piacere”. Senza metro “àneu metron”, e di conseguenza, Ad libitum! L’allentamento di ogni aritmetica e di ogni geometria, la sostituzione del tempo sognante, stazionario della berceuse, al tempo così ferocemente scandito di Mazeppa: ecco i sintomi di quella licenza che è il vero regime della rapsodia. Suonate quel che volete come volete. Andate dove vi porterà la fantasia. Tutto è permesso, salvo l’impossibile, nulla è proibito, salvo l’inseguibile e il mostruoso». Ma nell’atto stesso di improvvisare, in questa appassionata avventura che è l’improvvisazione musicale, l’improvvisatore ha coscienza? In realtà, preda di uno straordinario e quasi misterioso stato di grazia, egli sa e ignora, è presente a se stesso eppure incosciente, colpevole e allo stesso tempo innocente, afferra l’occasione presentendola, o meglio intravedendola, e ne feconda le possibilità, attualizzandole, o anche, crea le proprie possibilità unitamente all’atto creativo stesso: essendo l’improvvisazione tautologicamente causa sui, essa pone insieme l’essenza e l’esistenza, e mano a mano evolve e progredisce per concatenazioni di causa ed effetto. Jankélévitch ci sta qui dicendo che l’atto estemporaneo musicale non è che il vivere stesso, è la capacità di “arrangiarsi” tra le pieghe del tempo: in fondo, «la vita stessa è un’improvvisazione». «Vi chiedete cos’è la vita?» – Jankélévitch ce lo dice: «Una csárda nella steppa, una serie di abbozzi mancati, di scene incompiute, d’improvvisi senza testa né coda la cui stessa concatenazione ci appare solo a cose fatte per chi ne costruisce retrospettivamente la logica e la finalità». C’è un invito sotteso alla filosofia jankélévitchiana: lasciarsi scivolare, abbandonandosi, con spontaneità e innocente fiducia. Glissare…sui tasti del pianoforte…come nella vita.