Filosofia e musica in Vladimir Jankélévitch (prima parte)

  1. L’ineffabile “charme” della creazione artistica

Il pensiero filosofico di Jankélévitch rappresenta, nel suo complesso, un tentativo di ripresa del bergsonismo caratterizzato da una notevole originalità e da sviluppi assolutamente personali. Come scrisse Emmanuel Levinas, che fu suo amico, Jankélévitch «proferiva l’inaudito del messaggio bergsoniano»[1].  

Per Jankélévitch il “principio” della realtà non è una “sostanza”, un “ente”, bensì un “far essere senza essere”, uno slancio efferente che si esplica nel tempo, per riferirsi al quale il filosofo adotta un termine chiave di tutta la sua riflessione: “charme”, in cui riecheggia il sostantivo greco “charis[2], solitamente tradotto con “grazia”, e che mette in luce dunque la “gratuità” del reale, il suo essere “senza perché” (come la rosa del celebre distico di Angelus Silesius, che Jankélévitch cita a più riprese). Uno “charme” che è “ineffabile”, non predicabile, in quanto, come si è detto, pur essendo il “principio” degli “enti”, non è a sua volta una “cosa”, un “ente” particolare, localizzabile nello spazio e nel tempo e determinabile concettualmente; in questo senso, il filosofo utilizza espressioni particolari per riferirsi al “principio” non localizzabile e sfuggevole della realtà, ad esempio «Non-so-che» e «Quasi-niente»[3]. Scrive Jankélévitch:

«molti nomi si poterono dare a quest’innominato innominabile, molte definizioni si poterono proporre per questo “qualcos’altro” che non è propriamente come le altre cose perché in generale non è né una cosa né qualcosa»[4].

Si comprende quindi facilmente perché Jankélévitch faccia spesso riferimento al neoplatonismo, e in particolare al pensiero di Plotino, oggetto della tesi con cui ottenne nel 1924 il Diploma di Studi Superiori. Della prospettiva neoplatonica, infatti, il filosofo francese condivide la convinzione, caratteristica della cosiddetta “teologia negativa”, che il “principio” della realtà non sia esauribile in parole o concetti, ma sia invece “ineffabile”.

A tal proposito, bisogna introdurre fin da subito una distinzione su cui Jankélévitch insiste a più riprese (anche a proposito della musica), ovvero quella tra “indicibile” e “ineffabile” appunto. “Indicibile” è qualcosa su cui non si può dire nulla in quanto non esperibile direttamente, “in prima persona”; in tal senso, indicibile per Jankélévitch è in particolare la morte. “Ineffabile” è invece ciò su cui vi è infinitamente da dire, in quanto nessuna parola può esaurirne il senso; è il caso di grandi temi della filosofia, quali il tempo, l’amore, la libertà, Dio.

Alla tematica dell’ineffabilità del reale si collega anche l’interesse di Jankélévitch per la tarda filosofia di Schelling, argomento della sua tesi di dottorato. Da Schelling il filosofo francese ricava in particolare la distinzione tra il “Quid” o la “quiddità” (in Schelling “das Was”, “il che cosa”) e il “Quod” o la “quoddità” (in Schelling “das Dass”, “il Che”). Mentre il primo termine indica l’essenza concettualizzabile e quindi esprimibile di una cosa, il secondo sta a significare l’esistenza stessa della cosa, il “fatto che” essa sia, fatto assolutamente gratuito e senza fondamento, in quanto non riconducibile ad una causa “ontica”. In altri termini, si tratta della consapevolezza del fatto che quando definiamo concettualmente una cosa, in realtà la definiamo necessariamente in funzione di ciò che essa non è, ovvero in relazione ad altro da sé; mentre resta preclusa all’analisi concettuale la singolarità unica e irripetibile di quella stessa cosa, per indicare la quale Jankélévitch conia dal latino le espressioni “semelfattività” e “ipseità”. Anche Bergson, del resto, affermava di sperimentare ad ogni istante «la creazione continua d’imprevedibile novità che sembra realizzarsi nell’universo», e definiva l’intuizione come «la simpatia mediante la quale ci si trasporta all’interno di un oggetto per coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, d’inesprimibile»[5].

In L’evoluzione creatrice, in particolare, Bergson si era confrontato con le scienze biologiche, criticando le concezioni meccanicistiche della vita e proponendone una di tipo evolutivo basata sul concetto di elan vital (“slancio vitale”). Mentre gli altri esseri viventi, secondo Bergson, sono caratterizzati dall’“istinto”, ovvero da modalità di reazione automatiche a eventi che accadono nel proprio ambiente naturale, l’uomo è dotato dell’“intelletto”, ovvero della capacità di trascendere il proprio habitat grazie alla capacità di calcolo e previsione (la stessa capacità che mette capo al tempo misurabile di cui Bergson parlava nel Saggio sui dati immediati della coscienza). Tuttavia l’intelligenza, se non controllata e inconsapevole dei suoi limiti, rischia di ingabbiare l’uomo e minacciarne la vita; l’“intuizione” rappresenta quindi per il filosofo francese la possibilità di cogliere la realtà nel suo “slancio vitale”, superando così i limiti della ragione calcolante.

Lo “slancio vitale” è appunto il principio spirituale operante nella realtà, coglibile tramite l’“intuizione” e non attraverso l’“intelletto”; esso coincide con la realtà stessa nella sua essenza diveniente. La “materia”, oggetto dei calcoli e delle misurazioni dell’“intelletto” scientifico, rappresenta invece l’estinguersi dello “slancio vitale” e allo stesso tempo ciò che, limitandolo, ne rende possibile la manifestazione nelle innumerevoli forme di vita presenti in natura, secondo una dinamica che con Jankélévitch e Bergson stesso potremmo definire di “organo-ostacolo”: la “materia” è infatti allo stesso tempo l’organo e l’ostacolo dello “slancio vitale”, anzi propriamente parlando non è qualcosa d’altro rispetto ad esso, bensì il suo limite intrinseco, il risultato del suo esaurirsi.

Legata a tale prospettiva filosofica bergsoniana è la concezione dell’arte che Jankélévitch espone nei suoi scritti. Jankélévitch rileva come la “grazia” (charme), lo “slancio vitale” presente nella natura trovi una significativa corrispondenza nell’ambito artistico[6]: l’arte è infatti un atto creativo che, dando vita a un’opera, replica nel suo ambito lo slancio efferente, gratuito e in tal senso “libero”, proprio della realtà nel suo complesso. Gratuita è l’opera d’arte perché non è legata a fini particolari ad essa estrinseci, ma deriva piuttosto dall’“ispirazione” dell’artista, che costituisce qualcosa di “immotivato” e in un certo senso “miracoloso”.

Scrive opportunamente, a questo proposito, Enrica Lisciani Petrini:

«Il discorso sulla “grazia”, infatti, consente di guardare all’opera d’arte proprio cogliendone appieno lo statuto – “meontologico” per dir così – singolare, irripetibile e incausato. Il suo originare – per dirla con Klee, Rilke e Schönberg – da una “necessità interiore”. Espressione che non ha nulla a che vedere, come spesso invece si crede, con l’intimità psicologica dell’artista; ma sta a indicare invece la “grazia”, la circolazione dinamica interna a degli elementi (linee, colori, cerchi ecc.; oppure suoni; ovvero parole ecc.), che ogni volta fa sorgere, da essi, una “forma” nuova. Un’opera d’arte appunto. Sicché questa è l’esito di una “formazione”, di una “Gestaltung” come diceva Klee, che ogni volta “fa essere” una figura di mondo nuova, unica e irripetibile. Una “formazione”, una dinamica, determinante eppur inafferrabile»[7].

Inafferrabile è la dinamica artistica proprio perché inafferrabile è lo “charme”, il carattere gratuito proprio di ogni cosa, di cui l’opera d’arte, e in modo particolare quella musicale, è secondo Jankélévitch una testimonianza emblematica.

Si comprende facilmente infatti perché l’arte prediletta da Jankélévitch sia la musica; questa è infatti l’arte temporale e diveniente per eccellenza, non solo perché ogni composizione si sviluppa necessariamente nel tempo, ma anche perché propriamente l’opera musicale non esiste se non nella misura in cui viene eseguita di volta in volta in una cornice temporale ben definita e unica, irripetibile. Scrive a questo proposito il filosofo:

«La musica non esiste in se stessa, ma solo in quella pericolosa mezz’ora in cui, suonandola, la facciamo essere: la verità eterna diventa allora operazione temporale e comincia ad accadere effettivamente, secondo coordinate di orario e calendario. È quanto si chiama “aver luogo”»[8].

In questo senso, Jankélévitch ritiene che lo specifico della musica non sia la “bellezza”, intesa come perfezione statica e atemporale, bensì, come già si è detto, lo “charme”, che è quel “non so che” di incompiuto e precario, quel fascino attraente e non localizzabile che deriva dalla natura intrinsecamente temporale dell’opera musicale.

Appare inoltre evidente la presa di distacco operata da Jankélévitch nei confronti dell’estetica moderna, nella misura in cui questa ha indagato l’opera d’arte perlopiù dal punto di vista contemplativo, “statico” e conoscitivo dello spettatore, mentre il carattere essenziale di essa consiste, secondo il filosofo francese, nel suo essere una creazione e quindi nell’appartenere più all’ordine del “fare” che a quello del “conoscere”[9]; al punto che anche il fruitore dell’opera è chiamato in qualche modo a “ricreare” da sé l’opera stessa. Ciò vale in modo particolare per la musica:

«Dato che il mistero del non-so-che esercita innanzitutto un’azione efficace, la sua apparizione nell’artista possiede sempre il carattere irrazionale di una creazione e la comprensione di questa creazione da parte dell’interprete o dell’ascoltatore possiede sempre il carattere drastico di una ricreazione»[10].

Alla musica, sua grande passione[11], Jankélévitch ha dedicato numerosi libri e articoli, di cui la maggior parte riguardanti le opere e le idee estetiche di compositori da lui prediletti, ovvero soprattutto musicisti francesi, russi e spagnoli di fine Ottocento e inizio Novecento[12]; per quanto riguarda invece la “filosofia della musica” di Jankélévitch bisogna fare riferimento, oltre che alle considerazioni sparse nei suoi libri di filosofia, anche e soprattutto a La musica e l’ineffabile. All’esame delle tesi principali esposte in questa opera ci rivolgeremo ora; come vedremo alla fine, musica e filosofia risultano in Jankélévitch mirabilmente legate, quasi costituissero insieme una inscindibile unità, pur mantenendo le rispettive specificità.

 

[1] Emmanuel Levinas, Le Temps e L’Autre, PUF, Paris 1983, pp. 11-12. L’opera in cui Jankélévitch esprime nel modo più compiuto e articolato la propria proposta teoretica è certamente Philosophie première (1954); cfr. Vladimir Jankélévitch, Filosofia prima. Introduzione a una filosofia del “quasi”, a cura di Lucio Saviani, trad. it. di Francesco Fogliotti, Moretti&Vitali, Bergamo 2020.

[2] Per chiarire il significato di tale termine greco, che Jankélévitch riprende da Plotino, riportiamo la spiegazione che ne fornisce Enrica Lisciani Petrini: «Plotino utilizza questo lemma in vari punti delle Enneadi. Qui ci interessa un punto in particolare, citato (in vari scritti) da Jankélévitch: una piccola cellula quasi nascosta, ma emblematica, che Jankélévitch preleva dandole un inaspettato e decisivo risalto. Plotino, infatti, allorché vuol spiegare la qualità specifica, inconfondibile, di un volto bello, dice: «un viso può essere sì bello, ma incapace di commuovere perché su di esso non s’effonde la grazia della bellezza [charis epiteousa to kallei]. Si deve riconoscere che […] la bellezza non consiste tanto nella simmetria, quanto invece nello splendore che brilla nella simmetria». […] Cosa vuol dire Plotino? Questo: non una totalità, le cui parti siano messe meccanicamente o astrattamente insieme secondo criteri pre-stabiliti di proporzione e simmetria, è bella; ma un tutto le cui parti siano strette fra loro da qualcosa di inafferrabile, da una charis epiteousa appunto, da una grazia diffusa, che si irradia fra le varie parti creando fra loro, scrive ancora Jankélévitch, una sorta di «campo magnetico irradiante», ovvero facendo subire loro «una specie di contagio magico», di «operazione incantatrice» (Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, pp. 95, 93 e 98; it. pp. 81, 78 e 83). Contagio magico, operazione incantatrice. Perché queste parole? Ecco, qui si allude a un altro significato di charis, che, per sotterranee derivazioni e interpolazioni semantiche, dal mondo greco arriva fino al carmen latino, nonché al “carme” italiano e allo charme francese. Carmen, infatti, è un’altra lontana traduzione di charis – interpolato con cānĕre – che significa cantare, ma anche incantare, formulare vaticini. E carmen, non a caso, ha due significati principali: quello di “componimento poetico”, “poesia”, “canto” – da cui derivano appunto l’italiano “carme” e il francese charme (si pensi agli Charmes di Valéry) –; ma carmen ha anche il significato di “rito incantatorio”, “incantesimo”. Dunque – ecco il punto che ci interessa – carmen indica, in entrambi i significati, qualcosa che sfugge alla ragione, qualcosa di inafferrabile e che seduce, incanta (si pensi alla Carmen di Bizet: mai nome fu più indovinato per esprimere un eros seducente che sfugge alla ragione)». Cfr. Enrica Lisciani Petrini, La “grazia” del reale. Alcune considerazioni a partire da Jankélévitch, pp. 368-369, saggio disponibile al seguente link: http://www.spaziofilosofico.it/wp-content/uploads/2016/07/Lisciani-Petrini.pdf.

[3] Da cui il titolo di una delle sue più importanti opere: Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, Editions du Seuil, Paris 1980, seconda edizione ampliata (la prima edizione apparve presso PUF nel 1957); trad. it. di Carlo Alberto Bonadies, Il non-so-che e il quasi-niente, a cura di Enrica Lisciani Petrini, Einaudi, Torino 2011.

[4] Ivi, p. 6.

[5] Henri Bergson, Il pensiero e il movente. Saggi e conferenze, a cura di Gabriele Perrotti, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2001, p. 77, p. 138.

[6] Cfr. in particolare Vladimir Jankélévitch Il non-so-che e il quasi-niente, cit., pp. 64-94. L’accostamento tra l’arte e la “grazia” è stato proposto anche da Vittorio Mathieu, anch’egli come Jankélévitch influenzato da Bergson e da Plotino: «Per far l’esempio più semplice: quando io nasco, nessuno dubita che certe molecole si ricombinino, e così certi geni, che già c’eran prima. In questo ricombinarsi, però vengo al mondo io; e io non c’ero. La natura in generale non è diversa: per un verso essa non fa altro che ricombinarsi, ma per l’altro fa venire al mondo nuove specie, nuovi individui, e la vita stessa, che un tempo non c’era. Codesta visione bidimensionale dà fastidio. Perché? Perché, mentre nella dimensione in cui, semplicemente, tutto si ricombina, non avviene nulla che, almeno in linea di principio, non possiamo fare anche noi, del venire al mondo non siamo noi i padroni. […] Questo ci disturba, e perciò spesso preferiamo pensare che non sia così, anche a costo di degradare a pura fantasia il “venire al mondo”. […] se c’è una natura, in essa avviene qualcosa che non dipende interamente da noi, e che va propiziata, per dir così, con “preghiere”: siano queste un combinarsi di atomi, di geni, di suoni o di parole. […] Con l’arte, l’analogia è perfetta. Non c’è artista che non ricombini e “componga”. Ma non ci sarebbe arte se, in questo ricombinare, qualcosa non venisse al mondo. Anche l’arte, perciò, come la natura, ha una dimensione che conviene chiamare “grazia”: ammessa, a volte, sotto il nome di “ispirazione”, o sotto altre metafore del genere»; cfr. Vittorio Mathieu, La voce, la musica, il demoniaco, Spirali, Milano 1983, pp. 61-62.

[7] Enrica Lisciani Petrini, La “grazia” del reale. Alcune considerazioni a partire da Jankélévitch, cit., p. 374.

[8] Vladimir Jankélévitch, La musique et l’ineffable, Ed. du Seuil, Paris 19832; tr. it. di Enrica Lisciani Petrini, La musica e l’ineffabile, Bompiani, Milano 1998, p. 68.

[9]Tale obiezione era già stata mossa, in particolare in riferimento all’estetica di Kant e Schopenhauer, da Nietzsche in Genealogia della morale; cfr. Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, tr. it. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1984, pp. 95-98. Sull’argomento si vedano anche le considerazioni svolte da Giorgio Agamben in L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata 2013.

[10]Cfr. Vladimir Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 81.

[11] Scrive a questo proposito Carlo Migliaccio: «Si sa che Jankélévitch ha sempre messo a fianco dei suoi studi filosofici un interesse vivo e attivo per la musica. Egli impara a suonare il pianoforte da una zia e da sua sorella Ida, valente pianista. Suona e legge la musica tutti i giorni, alternando continuamente il leggio al tavolo di lavoro filosofico e obbedendo a una sorta di imperativo etico-musicale: seduto al piano, sentiva spesso la necessità di passare improvvisamente alla scrivania, per trascrivere sul foglio le intuizioni suscitate dall’ascolto di un pezzo musicale, quasi che lo strumento fosse una specie di laboratorio concreto e vivente del pensiero filosofico»; cfr. Carlo Migliaccio, L’odissea musicale nella filosofia di Vladimir Jankélévitch, CUEM, Milano 2000, p. 18.

[12] Ad esempio, per fare solo qualche nome, Gabriel Fauré, Claude Debussy, Maurice Ravel, Erik Satie, Franz Liszt, Frederic Chopin, Isaac Albeniz, Manuel De Falla, Federico Mompou, Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, Modest Petrovič Musorgskij.