Filosofia e musica in Vladimir Jankélévitch (seconda parte)

  1. L’“inespressiva espressività” della musica

 Nel secondo capitolo del suo libro La musica e l’ineffabile, Jankélévitch si propone di criticare la convinzione che la musica sia un linguaggio e che quindi, al pari del linguaggio verbale, essa rinvii a una o più “cose”:

«In effetti il pregiudizio metafisico riposa sull’idea che la musica sia un linguaggio, una sorta di lingua cifrata il cui alfabeto sarebbe costituito dalle note della scala musicale. Il linguaggio è il mezzo d’espressione umano per eccellenza, il più malleabile e il più duttile, ma non è il solo: l’uomo è sì un animale che parla, ma è anche un animale che canta»[1].

Il filosofo francese sottolinea come tale idea della musica come linguaggio abbia condizionato la stessa tradizione musicale, la quale ha spesso adottato metafore linguistiche che, per Jankélévitch, rischiano di condurre fuori strada in sede di elaborazione teorica; a tal riguardo, come ha giustamente evidenziato Giovanni Piana,

«occorre prestare attenzione a non confondere i piani di discorso, altrimenti le obiezioni a Jankélévitch sarebbero realmente troppo facili. Non si tratta di contestare il dato di fatto storico dell’enorme varietà di interrelazioni tra la parola e la musica, e nemmeno l’importanza, ad esempio, che i riferimenti alla retorica hanno avuto nelle pratiche compositive. Si tratta invece di cogliere le conseguenze che tutto ciò può avere nella sua proiezione sul piano della musicalità in genere, diciamo pure: sul modo di concepire l’essenza della musica. Infatti le immagini di provenienza linguistica hanno avuto tanto peso da far ritenere che esse portino sull’essenza del musicale – ed è questo il punto che viene contestato da Jankélévitch»[2].

In particolare, l’equiparazione tra musica e linguaggio porta spesso a ritenere che lo sviluppo musicale sia paragonabile a un “discorso”, e in quanto tale possieda le proprie “idee” costituite dai temi musicali; “idee” da svolgere, sviluppare secondo un ordine preciso, chiaro e consequenziale che l’ascoltatore deve riconoscere.

Ora, tale idea di “sviluppo” musicale è, secondo Jankélévitch, un puro “miraggio”, basato su mere metafore. Ad esempio, sostiene il filosofo francese, è arbitrario parlare di “dialogo” in rapporto a una composizione in cui si alternino due voci. Infatti è sufficiente fare riferimento alla polifonia, ovvero alla possibilità della presenza simultanea di più voci, per togliere legittimità a ogni concezione “dialogica” della musica, dal momento che il dialogo verbale presuppone invece necessariamente che le voci si alternino, al fine di evitarne la sovrapposizione che impedirebbe la comunicabilità del “significato” del “discorso”; la musica, all’opposto, non ha un “significato” ad essa estrinseco.

Questo è anche il motivo per cui, più in generale, la musica 

«è agli antipodi di qualsiasi sistema coerente. Il filosofo che riflette sul mondo aspira quantomeno alla coerenza cercando di risolvere le contraddizioni, di ridurre gli irriducibili e di comporre il male connesso alla dualità e alla pluralità. La musica invece ignora queste preoccupazioni, in quanto non ha idee da raccordare logicamente le une alle altre. L’Armonia stessa è più una simbiosi irrazionale di eterogenei che una sintesi razionale di opposti»[3].

Tale feconda “incoerenza” propria della musica è inoltre ciò che per Jankélévitch spiega la possibilità di amare contemporaneamente le musiche di compositori tra loro anche molto diversi: la musica infatti «non è tenuta alla coerenza ideologica»[4].

Un ulteriore elemento che Jankélévitch mette in risalto nella sua critica alla concezione discorsiva della musica è l’insensibilità dell’arte dei suoni nei confronti delle ripetizioni: mentre infatti in un discorso esse appaiono inutili e anzi addirittura fastidiose, in musica al contrario le ripetizioni possono acquisire un significativo valore artistico[5]; ad esempio, la ripetizione continua di una “frase” musicale può svolgere un’azione di incantamento nei confronti dell’ascoltatore, mentre una ripetizione che avvenga dopo un intervallo temporale relativamente lungo può far sì che la “frase” musicale riesposta acquisti un nuovo valore alla luce di ciò che la ha preceduta.

Se l’idea che la musica possa esprimere idee si è rivelata un miraggio, si potrebbe comunque pensare che essa possa esprimere altro, e in particolare sentimenti e passioni, o anche che possa “descrivere paesaggi” o “raccontare eventi”: ma secondo Jankélévitch le cose non stanno così[6].

Nella sua critica alla concezione “espressionistica” della musica il filosofo francese preferisce, piuttosto che muovere obiezioni di ordine puramente teorico, fare riferimento all’opera di alcuni significativi musicisti da lui prediletti, i quali, in maniere differenti, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento hanno reagito al tardo romanticismo musicale capovolgendone alcuni paradigmi estetici.

È stato infatti soprattutto il romanticismo musicale ottocentesco, e in particolare quello tedesco secondo Jankélévitch, ad incarnare la concezione “espressionistica” della musica, legando più o meno esplicitamente l’interpretazione delle composizioni a riferimenti extra-musicali di natura sentimentale o descrittiva: si tratta della cosiddetta “musica a programma”, che ha trovato emblematiche realizzazioni, ad esempio, nelle “sinfonie a programma” o nei “poemi sinfonici” di svariati compositori, da Hector Berlioz a Richard Strauss.

L’“anti-romanticismo” ha trovato diversi modi di prendere forma: il primo ricordato da Jankélévitch è l’“impressionismo”, una particolare attitudine a neutralizzare la volontà espressiva del soggetto che si ritrova per esempio in certe composizioni “atmosferiche” di Claude Debussy; scrive a questo proposito Giovanni Piana:

«L’impressione è stata talora interpretata – si pensi a Hume – come una sorta di entità intermedia o almeno neutra rispetto alla distinzione tra soggettività e oggettività. Così del resto ne parlavano i pittori impressionisti. Mentre l’espressione nell’accezione or ora illustrata è “esibizionistica e soggettiva”, l’impressione invece, pur essendo legata alla soggettività, non intende portare alla luce la sua vita interiore, ma dissolvere la soggettività verso l’esterno, ad esempio, nell’esteriorità atmosferica di un paesaggio»[7].

Una ulteriore forma di reazione all’espressionismo romantico, alternativa all’impressionismo, è ciò che si potrebbe chiamare con Jankélévitch “oggettività inespressiva”, ovvero una musica che «lascia parlare le cose stesse nella loro originaria crudezza, senza esponenti né intermediari di sorta»[8]. Un esempio fornito dal filosofo francese è il modo in cui nella musica del Novecento è stato imitato il canto degli uccelli: nel Chant du Rossignol di Igor Stravinskij o nel Catalogo di Olivier Messiaen gli uccelli cantano con il proprio canto, mentre tradizionalmente esso era sempre stato riprodotto seguendo delle “convenzioni imitative” volte a trasfigurarlo. Ciò che conta in questo caso evidentemente non è tanto il risultato, quanto piuttosto l’intenzione, ovvero la volontà dei musicisti “moderni” di aderire al dato naturale oggettivo con maggiore fedeltà, al fine di evitare ogni forma di elaborazione soggettiva di esso. La stessa volontà “oggettivistica” si è manifestata anche nella tendenza, ad esempio in alcune composizioni di Béla Bartok, ad introdurre nella musica i rumori della natura.

Scrive Jankélévitch:

«L’oggettivismo acuto, che rifugge la vita patica sempre alla ricerca di un modo di esprimersi, si approssima così a quella zona amelodica, amusicale, paramusicale e premusicale che, come l’oceano, è l’universo del rumore amorfo e del brusio caotico»[9].

La volontà di reprimere l’espressione ha portato anche alcuni compositori, ad esempio Igor Stavinskij, Darius Milhaud o Sergej Prokofiev, a composizioni dalle sonorità violente, ottenute tramite stridenti dissonanze e ritmi incisivi; si tratta tuttavia di una violenza non meramente distruttiva, bensì “geniale” e “fondatrice”, che «ritorna all’informe in quanto sorgente di tutte le forme» e inaugura così «una bellezza nuova e insolita»[10].

Oltre al “ghigno”, alla “smorfia” della violenza vi è però anche la “maschera”, emblema invece della volontà di non esprimere nulla propria di compositori quali Stavinskij, Maurice Ravel o Erik Satie, spesso accompagnata dall’interesse a riprodurre musicalmente ciò che rimanda alla sfera del “meccanico” e dell’“artificiale” e si oppone così allo slancio patetico del romanticismo:

«Le stridenti meccaniche di Satie, gli organetti di Barberia di Séverac, i marchingegni automatici e gli orologi di Ravel, i burattini di Stravinskij e di De Falla, il rumore delle macchine in Prokofiev rivelano tutti un’identica fobia per l’esaltazione lirica e lo slancio patetico; pianole meccaniche e uccelli automatici, ridicole marionette e automi rimontati: tutte queste musiche artificiose, con le loro sacrileghe contraffazioni, sembrano ironizzare sulla tenerezza e sul languore dell’Appassionato»[11].

Vi sono poi altre modalità di evitare l’“espressione”: è possibile infatti anzitutto “dire il contrario” di ciò che si dovrebbe dire, come ad esempio fa Ravel quando pone l’indicazione “senza espressione” sopra alla frase più patetica di una sua composizione; oppure si può “dire altro” rispetto a ciò che ci si aspetterebbe, come avviene nelle composizioni umoristiche e ironiche di Erik Satie; o ancora, è possibile “dire meno” rispetto al previsto, come avviene nelle laconiche composizioni di Federico Mompou o in quelle più austere di Manuel de Falla, le quali rappresentano così «una lezione di pudore e sobrietà per l’incontinenza musicale e l’esibizionismo affettivo»[12].

La musica, sostiene il filosofo francese, appare in definitiva inadatta ad “esprimere”; e tuttavia, Jankélévitch non vuole con ciò bandire l’“espressione” in quanto tale, ma piuttosto la sua degenerazione, ovvero la pretesa di “esprimere” un contenuto in modo univoco e senza ambiguità, laddove invece la musica lascia sempre ampi spazi di interpretazione che fanno sì che, ad esempio, siano possibili e sempre legittime diverse esecuzioni o diverse ricezioni di una stessa composizione.

A sostegno di tale apertura dell’opera musicale all’interpretazione, Jankélévitch riporta ancora una volta degli esempi tratti dalla concreta pratica compositiva dei suoi musicisti prediletti; anzitutto la musica appare capace di descrivere, evocare e raccontare solo a “grandi linee”, come mostrano in particolare le opere vocali, le quali risultano molto più riuscite e affascinanti se, in rapporto al testo cantato, rinunciano a imitarlo in ogni dettaglio, preferendo invece evocarne appunto “a grandi linee” le situazioni[13]; nello stesso senso va anche interpretata la tendenza a “suggerire a cose fatte”, come ad esempio fa Claude Debussy, il quale in partitura pone i titoli dei suoi Préludes alla fine di ciascun brano, anziché all’inizio come vorrebbe la norma.

Alla luce di quanto si è detto, si può dunque ora comprendere il senso del paradossale titolo del secondo capitolo di La musica e l’ineffabile, ovvero “L’“espressivo” inespressivo”. Scrive infatti Jankélévitch:

«la musica dunque è inespressiva non perché non esprima niente, ma perché non esprime questo o quel paesaggio privilegiato, questo o quello sfondo ad esclusione di tutti gli altri; è inespressiva in quanto implica innumerevoli possibilità interpretative tra le quali ci lascia una completa libertà di scelta»[14].

In altri termini, la musica «esprime l’inesprimibile all’infinito»; ma bisogna precisare, facendo riferimento a una distinzione che abbiamo già introdotto, che non si tratta dell’“inesprimibile” in quanto “indicibile”, su cui non c’è nulla da dire, bensì dell’“inesprimibile” in quanto “ineffabile”, su cui c’è infinitamente da dire e, nel caso della musica, da comporre e suonare.

Non sorprende quindi che l’ultimo capitolo di La musica e l’ineffabile sia intitolato “Musica e silenzio”; il “silenzio” a cui si fa riferimento è infatti il “silenzio ineffabile”. Scrive a questo proposito Jankélévitch:

«La musica si staglia sul silenzio – ma appunto perciò ha bisogno del silenzio stesso come la vita della morte e come il pensiero, secondo il Sofista di Platone, ha bisogno del non-essere. La vita, in tutto simile all’opera d’arte, è una costruzione animata e limitata, che si ritaglia nell’infinito della morte; e la musica, in tutto simile alla vita, è una costruzione melodiosa, una durata incantata, un’assai effimera avventura, un breve incontro che, circoscritto fra un inizio e una fine, si isola nell’immensità del non-essere»[15].

Ma il silenzio non è solo ciò che vi è prima e dopo la musica; esso è anche un suo elemento costitutivo, non soltanto nel senso che la musica non tollera rumori e discorsi mentre viene eseguita, ma anche perché essa necessita di silenzi, sospiri e pause più o meno lunghe per potersi articolare. Il che risulta particolarmente evidente nelle opere di alcuni compositori vissuti a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Un esempio è la tendenza di alcuni musicisti, come Erik Satie o Federico Mompou, a comporre “pezzi brevi”: infatti Jankélévitch vede nella concisione di questi autori

«un desiderio di turbare il silenzio il meno a lungo possibile. E la reticenza va probabilmente considerata come un silenzio privilegiato. Perché il silenzio non più “tacito” o semplicemente “taciturno”, ma “reticente”, è quello che si porta repentinamente sul bordo del mistero o sulla soglia dell’ineffabile, quando sono divenute evidenti la vanità e l’impotenza delle parole»[16].

Il “silenzio musicale”, però, non è solo “cessazione”: esso è anche “intensità attenuata”, ovvero «un gioco col quasi-niente, sulla soglia dell’inudibile»[17], come ad esempio avviene nelle composizioni di Gabriel Fauré, Claude Debussy e Isaac Albéniz, che spesso ricorrono al “pianissimo” in partitura.

In definitiva, credo che si possa ora comprendere, alla luce di quanto detto, il senso della seguente affermazione di Jankélévitch: «si dovrebbe scrivere non “su” la musica, ma “con” la musica e musicalmente, restare complici del suo mistero»[18].

Infatti, una volta decostruite le pretese di ricondurre il senso della musica a qualcosa ad essa estraneo, si pongono le condizioni per ritrovare in essa il medesimo slancio gratuito, infondato ed efferente, lo stesso “charme” a cui Jankélévitch ha dedicato molte pagine dei suoi lavori filosofici; in questo senso, si può dire che nel pensiero del filosofo francese musica e filosofia risultano   fortemente correlate, proprio perché la musica, al pari della filosofia di Jankélévitch,

«testimonia il fatto che l’essenziale in tutte le cose è un non so che di inafferrabile e ineffabile; essa rafforza in noi la convinzione che la cosa più importante del mondo è appunto quella che non si può dire»[19]. 

  1. Conclusioni

 Per concludere, vorrei svolgere delle considerazioni di carattere generale sul pensiero di Jankélévitch.

Anzitutto, alcuni lettori del filosofo francese hanno sottolineato come il privilegio accordato, da parte di Jankélévitch, a un orizzonte musicale assai circoscritto, rappresenti un grave limite per una “filosofia della musica” che voglia essere una teoria complessiva dell’arte musicale. Tuttavia, alla luce di quanto si è detto, possiamo ora comprendere come questa critica non colga il vero obiettivo della riflessione di Jankélévitch sulla musica. Infatti il nostro filosofo non mira affatto a elaborare una teoria generale dell’arte dei suoni, bensì piuttosto a mettere in evidenza alcune importanti corrispondenze tra il suo pensiero e le sue musiche preferite; e ciò non esclude a priori la possibilità di rinvenire gli stessi elementi filosoficamente significativi anche in altre musiche, per esempio in quelle di alcuni compositori appartenenti all’area di lingua tedesca[20].

Infine, vorrei ora proporre una chiave di lettura complessiva della filosofia della musica di Jankélévitch.

Come si è detto, oltre a Bergson un altro punto di riferimento filosofico fondamentale di Jankélévitch è Plotino. Ci sembra quindi di poter dire, in conclusione, che l’opera d’arte, e in particolare l’opera d’arte musicale, nella prospettiva teorica di Jankélévitch sia accostabile all’“icona”[21]. È caratteristico dell’“icona”, infatti, il fatto di essere una rappresentazione che, nel momento stesso in cui rappresenta, sottrae alla visibilità il rappresentato[22]. L’“icona”, in altri termini, esibisce in sé “qualcosa” che non è di per sé direttamente esperibile, ma a cui si può piuttosto fare “allusione”; questo “qualcosa” è appunto l’“Uno” plotiniano, il “principio” di ogni ente, che Jankélévitch interpreta come quel “Far essere senza essere” indicato dal termine “charme”.

La musica può quindi permetterci di “alludere” all’“Uno”, ovvero all’“eterno”. Tale “eternità”, infine, non deve essere concepita come qualcosa di astrattamente “altro” rispetto alla temporalità, né tantomeno semplicemente come un tempo indefinitamente protratto; essa è piuttosto quella “eternità di vita” di cui parlava Bergson[23], ovvero quel livello profondo del reale in cui la “durata” è infinitamente contratta e raccolta in sé stessa: nell’“eternità” dell’ “Uno”, il tempo è concentrato nell’“istante”[24].

Sicché, riprendendo e modificando la definizione di Stendhal secondo cui la bellezza è una “promessa di felicità”, si potrebbe forse dire che la musica è una “promessa di eternità”:

 «la musica è nel tempo, ma non è meno vero che rende insensibile la miseria dello scorrere del tempo: l’uomo risvegliato, appagato, rapito dall’incanto musicale, non sente più la noia della temporalità vuota. È una resurrezione! La musica trasporta e trattiene il musicista in una sorta di eterno presente in cui la morte non conta più; o meglio, è un modo di vivere l’invivibile dell’eternità».[25]

 

[1] Vladimir Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, cit., p. 15.

[2] Giovanni Piana, Il tema dell’ineffabilità nella filosofia della musica di Jankélévitch, materiali di lavoro per un corso sul tema “Linguaggio ed esperienza nella filosofia della musica” tenuto nel 1987 (Università di Milano, Insegnamento di Filosofia teoretica I), pp. 11-12; testo disponibile al seguente link: http://www.filosofia.unimi.it/piana/index.php/filosofia-della-musica/102-il-tema-dellineffabilita-nella-filosofia-della-musica-di-jankelevitch.

[3] Vladimir Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, cit., p. 17.

[4] Ivi, p. 19.

[5] Già Schopenhauer aveva notato come le ripetizioni e i “da capo” «nelle opere espresse dalla parola risulterebbero insopportabili, mentre in quelle musicali, al contrario, sono opportuni e gradevoli poiché, per afferrarle pienamente, le dobbiamo ascoltare due volte»; cfr. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di Giorgio Brianese, Einaudi, Torino 2013, p. 343. 

[6] Anche Vittorio Mathieu sostiene che la descrizione di paesaggi e la narrazione di eventi in musica abbiano un carattere meramente “accidentale”: «Quando è riuscita, anche la musica del poema sinfonico, come la poesia dei poemi riusciti dei grandi poeti, parla, sì, di qualcosa, ma non è rivelativa per questo. È rivelativa perché questi pretesti, o argomenti, o soggetti, questi “temi” servono a fare emergere il nulla di queste cose, che indirizza la nostra attenzione verso quell’essere che non può essere un oggetto»; cfr. Vittorio Mathieu, Il nulla, la musica, la luce, Spirali, Milano 1996, p. 17. E ancora: «quando è musica riuscita, questo riferimento alle cose non è inutile ma è, semplicemente, l’argomento, lo strumento, il pretesto per fare emergere il silenzio»; cfr. ivi, p. 18. Riguardo invece all’idea che la musica esprima sentimenti, tipica soprattutto dell’estetica musicale settecentesca, Mathieu sostiene che si tratta in realtà di un «espediente per giustificare il bisogno di dare un contenuto alla musica […] perché il sentimento, pur aggrappandosi a enti che possono essere cose, persone, ecc., ha sempre una dimensione d’infinità, verso cui ci proietta lo stesso aggancio alla cosa o alla persona»; cfr. ibidem. La tesi di Mathieu è quindi che la musica propriamente parlando non “esprime” o “rispecchia” i sentimenti, ma piuttosto li “produce”, li “genera”; cfr. ivi, p. 42 e pp. 81-82.

[7] Giovanni Piana, Il tema dell’ineffabilità nella filosofia della musica di Jankélévitch, cit., pp. 17-18.

[8] Vladimir Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, cit., p. 28.

[9] Ivi, p. 33.

[10] Ivi, p. 36.

[11] Ivi, pp. 37-38.

[12] Ivi, p. 43.

[13] A proposito della musiche vocali e della funzione di semplice “pretesto” svolto in esse dal testo cantato, Mathieu afferma che tali musiche «si apprezzerebbero ugualmente, anche senza il testo. Uno può benissimo sentire tutto il Boris Godunov in russo, non capire una parola, non sapere nulla della vicenda, e apprezzarlo. Credo che lo apprezzerebbe di più se conoscesse la vicenda e conoscesse il russo, naturalmente. Ma di certi lieder di Schumann vagamente uno sa che sono tratti da un certo testo poetico, eppure in fondo si reggono da sé, anche musicalmente, attraverso il canto»; cfr. Vittorio Mathieu, Il nulla, la musica, la luce, cit., p. 148.    

[14] Vladimir Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, cit., p. 63. Alle tesi di Jankélévitch fa riferimento anche Michel Imberty, che propone di distinguere, a proposito dell’opera musicale, tra “senso” e “significato”: «L’opera ha un senso ma non ha un significato, cioè non permette di definire delle relazioni tra significante e significato paragonabili a quelle del linguaggio. Si è visto che, malgrado il peso della convenzione, il segno musicale è motivato: in questo senso la musica non è un linguaggio di significati; tuttavia essa rivela all’ascoltatore qualcosa che non è riducibile all’aspetto fenomenico della forma e che è elaborato dall’ascoltatore al momento dell’ascolto. Questo è il senso che, quando è esplicitato dalle parole, si perde nei significati verbali i quali essendo troppo precisi e troppo letterali lo tradiscono. […] Come osserva Jankélévitch, la musica significa solo “a cose fatte”, cioè dopo il tentativo di esplicitazione e concettualizzazione. Prima di tale tentativo essa non significa, ma piuttosto suggerisce, cioè crea delle forze immaginative che provocano e orientano le associazioni verbali»; cfr. Michel Imberty, Suoni, Emozioni, Significati. Per una semantica psicologica della musica, a cura di Laura Callegari e Johannella Tafuri, CLUEB, Bologna 1986, pp. 55-56. Adottando la distinzione proposta da Imberty, potremmo quindi affermare che la musica, nella prospettiva teorica di Jankélévitch, non ha, propriamente parlando, “significato”, ma ha piuttosto “senso”.

[15] Vladimir Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, cit., p. 113; sul tema del silenzio musicale in Jankélévitch, cfr. Simone Zacchini, L’altra voce del logos. Filosofia, musica e silenzio in Vladimir Jankélévitch, Trauben, Torino 2003. Sul silenzio nella musica di Debussy cfr. Vladimir Jankélévitch, Debussy e il mistero, trad. it. di Carlo Migliaccio, a cura di Enrica Lisciani Petrini, SE, Milano 2012, pp. 108 sgg.

[16]Ivi, p. 120.

[17]Ivi, p. 121.

[18] Vladimir Jankélévitch, Da qualche parte nell’incompiuto, trad. it. di Valeria Zini, a cura di Enrica Lisciani Petrini, Einaudi, Torino 2012, p. 201.

[19]Ibidem.

[20] L’esclusione della musica tedesca in Jankélévitch è dettata anzitutto da motivi di carattere estetico-musicale e dalle predilezioni personali del filosofo francese. Infatti, come si è accennato in precedenza, la musica tedesca, in particolare nelle sue propaggini tardo-romantiche, secondo Jankélévitch è legata ad una poetica espressionistica «troppo intimorita dal niente, troppo abitata dalla volontà del grandioso», e «volta troppo ostinatamente la schiena alla “collaborazione misteriosa del profumo dei fiori”, dei flussi dell’aria e del movimento delle foglie»; elementi, questi, che Jankélévitch invece rinviene e apprezza nei musicisti moderni francesi, slavi, russi e spagnoli (cfr. Vladimir Jankélévitch, Da qualche parte nell’incompiuto, cit., p. 207). Oltre a queste motivazioni propriamente estetiche, un ruolo non secondario nell’esclusione della musica tedesca da parte del filosofo è stato forse ricoperto anche dal distacco, da egli maturato soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, nei confronti della cultura tedesca in generale. Infatti Jankélévitch, che era di origini ebraiche e aveva partecipato attivamente alla Resistenza, dopo i tragici fatti bellici maturò nei confronti della cultura tedesca, vista come in qualche modo complice di tali eventi, una notevole presa di distanza, testimoniata tra l’altro dalla scarsa presenza di espliciti riferimenti a filosofi o musicisti tedeschi contemporanei nei suoi scritti; nei confronti di Heidegger, l’atteggiamento di Jankélévitch fu anzi di ostilità in quanto, come è noto, il filosofo di Messkirch aveva apertamente aderito al nazismo nel 1933.

[21] L’accostamento tra l’opera musicale e l’“icona” è stato proposto, in riferimento alla riflessione di  Jankélévitch sulla musica e a quella di Pavel Florenskij sull’“icona”, anche da Silvia Vizzardelli: «in fondo l’opera d’arte per Jankélévitch, come l’icona per Florenskij, è sempre o più grande di se stessa quando riesce a spalancare le porte al trascendente, o è meno di se stessa quando resta mera tavola dipinta o mera combinazione di forme sensibili»; cfr. Silvia Vizzardelli, Battere il tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch, Quodlibet, Macerata 2003, pp. 13-16, qui p. 15.

[22] Il tema dell’“icona” è stato sviluppato in chiave propriamente teoretica da Jean-Luc Marion in L’idolo e la distanza: cinque studi, trad. it. di Adriano Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1979, pp. 203-250. Nelle opere successive di Marion, l’“icona” è concepita come un particolare tipo di “fenomeno saturo”, ovvero un fenomeno che «l’eccesso di intuizione sottrae alla costituzione oggettiva» operata dal soggetto (cfr. Jean-Luc Marion, Il visibile e il rivelato, trad. it. di Carla Canullo, Jaca Book, Milano 2007, p. 65). Sull’ascolto musicale come “fenomeno saturo” cfr. ivi, pp. 146-147.

[23] Cfr. Henri Bergson, Il pensiero e il movente. Saggi e conferenze, cit., p. 133, p. 159. Sull’“eternità di vita” bergsoniana cfr. Vittorio Mathieu, Bergson. Il profondo e la sua espressione, Guida Editori, Napoli 1971, pp. 124 sgg. e pp. 366-370.

[24]Il tema dell’“istantaneità” come carattere essenziale del “principio-Uno” (inteso come “Far essere senza essere”) è centrale nella “filosofia prima” di Jankélévitch; cfr. ad es. Vladimir Jankélévitch, Filosofia prima, cit., pp. 249-259. Va ricordato, inoltre, che per Jankélévitch l’“istantaneismo” è uno degli elementi fondamentali della poetica musicale di Debussy (cfr. Vladimir Jankélévitch, Debussy e il mistero, cit.).

[25] Cfr. Vladimir Jankélévitch, Da qualche parte nell’incompiuto, cit., pp. 213-214. Jeanne Hersch, che parla dell’opera d’arte musicale come di una «miniatura di eternità», scrive: «La musica si svolge e si avvolge in un unico movimento. Non sappiamo come, ma essa è contemporaneamente successiva e simultanea. Le note e i ritmi si susseguono e si dissolvono, si susseguono dissolvendosi, ma al tempo stesso non si dissolvono, ognuno implica i precedenti e i successivi, e deve loro un senso»; cfr. Jeanne Hersch, Tempo e Musica, trad. it. di Roberta Guccinelli, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009, p. 76.