Reading Nietzscheani – Maschera – Estratti scelti per la seconda lettura

Reading Nietzscheani – Maschera
Gli estratti scelti
Domenica 12 novembre 2023, ore 17
Accademia Giuditta Pasta – Palazzo Valli Bruni, via Rodari 1 – Como

Ingresso libero con prenotazione a questo link

La coscienza dell’apparenza. In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo ed ironico mi sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all’esistenza tutta! Ho scoperto per me che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi e l’intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, ad odiare, a trarre le sue conclusioni, – mi sono destato di colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il sonnambulo deve continuare a sognare, per non piombare a terra. Che cos’è ora, per me, apparenza! In verità, non l’opposto di una qualche sostanza: che cos’altro posso asserire di una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua apparenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una X sconosciuta e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive, che va tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più; che tra tutti questi sognatori anch’io, l’uomo della conoscenza, danzo la mia danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa parte dei soprintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno.
(La gaia scienza, aforisma 54)

Poeti e mentitori. Il poeta vede nel mentitore il suo fratello di latte, al quale ha preso e bevuto il latte: così quello è restato miserabile e non gli è riuscito di arrivare alla buona coscienza.
(La gaia scienza, aforisma 222)

Il linguaggio come presunta scienza. L’importanza del linguaggio per lo sviluppo della civiltà consiste nel fatto che l’uomo pose mediante il linguaggio un proprio mondo accanto all’altro, un punto che egli ritenne così saldo da potere, facendo leva su di esso, sollevare dai cardini il resto del mondo e rendersene signore. In quanto ha creduto per lunghi periodi di tempo nelle nozioni e nei nomi delle come cose in æternæ veritates, l’uomo ha acquistato quell’orgoglio col quale si è innalzato al di sopra dell’animale: egli credeva veramente di avere nel linguaggio la conoscenza del mondo. Il creatore di linguaggio non era così modesto da credere di dare alle cose appunto solo denominazioni; al contrario egli immaginava di esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose; in realtà il linguaggio è il primo gradino nello sforzo verso la scienza. […].
(Umano, troppo umano, aforisma 11)

Il numero. La scoperta delle leggi dei numeri è stata fatta in base all’errore già in origine dominante che ci siano più cose uguali (ma in realtà non c’è niente di uguale), o che perlomeno ci siano cose (ma non ci sono ‹‹cose››). L’ammissione della molteplicità presuppone sempre già che ci sia qualcosa che si presenta come molteplice: ma proprio qui regna già l’errore, già qui fingiamo esseri e unità che non esistono. […] Le leggi dei numeri sono talmente inapplicabili a un mondo che non sia nostra rappresentazione: esse valgono solo nel mondo umano.
(Umano, troppo umano, aforisma 19)

Promesse della scienza. La scienza moderna ha come scopo: il meno dolore possibile, la vita più lunga possibile – cioè una specie di eterna beatitudine, in verità molto modesta in confronto alle promesse delle religioni.
(Umano, troppo umano, aforisma 128)

In che modo il metro abbellisce. Il metro pone un velo sulla realtà; causa una certa artificiosità del dire e una certa impurità del pensare; con l’ombra che getta sul pensiero, ora nasconde, ora fa risaltare. Come l’ombra è necessaria per abbellire, così il ‹‹cupo›› è necessario per rischiarare. L’arte rende tollerabile la vista della vita ricoprendola col velo del pensiero non puro.
(Umano, troppo umano, aforisma 151)

Principe e Dio. Per più versi gli uomini si comportano coi loro prìncipi in maniera simile a come si comportano col loro Dio, come appunto anche il principe fu per più versi il rappresentante di Dio, o per lo meno il suo sommo sacerdote. Questa quasi sinistra disposizione spirituale alla venerazione, alla paura, alla soggezione è divenuta ed è molto più debole, ma talvolta divampa e si attacca a persone potenti in genere. Il culto del genio è un’eco di questa venerazione dei prìncipi-dèi. Dovunque ci si sforzi di elevare singoli individui a sfera sovrumana, sorge anche la tendenza a raffigurarsi interi strati di popolo più rozzi e bassi di quanto realmente non siano.
(Umano, troppo umano, aforisma 461)

La verità come Circe. L’errore ha fatto di animali uomini; sarebbe la verità in grado di rifare dell’uomo un animale?
(Umano, troppo umano, aforisma 519)

Serietà nel giuoco. A Genova, nel tempo del crepuscolo, sentii giungere da una torre un prolungato suono di campane: non voleva finire e risuonava come insaziato di se stesso, sopra il rumore dei vicoli nel cielo serotino e nell’aria marina, così impressionante, così fanciullesco insieme, così melanconico. Allora mi ricordai delle parole di Platone e le sentii tutt’a un tratto nel cuore: Tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio; tuttavia…
(Umano, troppo umano, aforisma 628)

No, questo cattivo gusto, questo volere la verità, la «verità a ogni costo», questa farneticazione da adolescenti nell’amore della verità ci sono venuti in uggia: per questo siamo troppo esperti, troppo rigorosi, troppo gioiosi, troppo bruciati, troppo profondi… Non crediamo più che verità resti ancora verità, se le si tolgono i veli di dosso; abbiamo vissuto abbastanza per credere in questo. Oggi è per noi solo questione di decoro non voler vedere tutto nella sua nudità, non volere intrometterci in tutto, tutto comprendere e «sapere». «È vero che il buon Dio è presente in ogni luogo?» chiese una bambina a sua madre: «ma io trovo che questo non sta bene» – un avvertimento per i filosofi! Si dovrebbe onorare maggiormente il pudore con cui la natura si è nascosta sotto enigmi e variopinte incertezze. Forse la verità è una donna, che ha buone ragioni per non far vedere le sue ragioni. Forse il suo nome, per dirla in greco, è Baubo?…Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all’increspatura, alla pelle, adorare la parvenza, credere a forme, suoni, parole, all’intero Olimpo della parvenza! Questi Greci erano superficiali – per profondità! E non facciamo appunto ritorno a essi, noi temerari dello spirito, noi che ci siamo arrampicati sul più alto e rischioso culmine del pensiero contemporaneo e di lassù abbiamo volto lo sguardo intorno, noi che di lassù abbiamo volto lo sguardo in basso? Non siamo esattamente in questo dei Greci?
Adoratori delle forme, dei suoni, delle parole? Appunto perciò — artisti?
(Prefazione alla Gaia scienza)

Generosità proibita. Nel mondo non c’è abbastanza amore e bontà per poterne fare dono anche ad esseri immaginari.
(Umano troppo umano, Aforisma 129)

In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il mi- nuto più tracotante e menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero mori- re. – Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell’uomo. Esso è umano, e soltanto il suo possessore e produttore può considerarlo con tanto pàthos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pàthos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo. Non c’è niente in natura di così spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quella facoltà conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso modo in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il più orgoglioso degli uomini, il filosofo, è convinto che da ogni lato gli occhi dell’universo siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare.
(Su verità e menzogna in senso extramorale)

Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retorica- mente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. Noi continuiamo a non sapere da dove scaturisca l’impulso alla verità: giacché noi finora abbiamo preso atto del dovere, che la società impone per esistere, di essere sinceri, e cioè di usare le metafore secondo le consuetudini; il che significa, da un punto di vista morale: noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti.
(Su verità e menzogna in senso extramorale)

[…] Infine, dopo sette giorni, Zarathustra si levò sul giaciglio, prese una mela in mano, la odorò e ne trovò il profumo amabile. Allora le sue bestie ritennero che fosse giunto il momento di parlare con lui.
‹‹O Zarathustra, dissero, già da sette giorni tu giaci così, con gli occhi grevi: non vuoi finalmente rimetterti in piedi? Esci dalla tua caverna: come un giardino, il mondo ti attende. Il vento giuoca con densi aromi, che vogliono raggiungerti; e tutti i ruscelli vorrebbero correrti dietro. Tutte le cose hanno nostalgia di te, tanto più che rimanesti solo per sette giorni, – esci
fuori dalla tua caverna! Tutte le cose vogliono farti da medico! Venne a te, forse, una conoscenza nuova, una conoscenza greve di fermenti? Tu giacevi come pasta intrisa di fermenti, la tua anima lievitò e gonfiando traboccò da
tutti gli orli››.
O animali miei, ripose Zarathustra, continuate a ciarlare così e lasciate che io vi ascolti! È per me un tale ristoro che voi chiacchieriate: là dove si chiacchiera, il mondo già mi si stende davanti come un giardino. Dolce è che vi siano parole e suoni: non son forse, parole e suoni, arcobaleni e parvenze di ponti tra ciò che è separato dall’eternità? Ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima, ogni altra anima è un mondo dietro al mondo.
Proprio tra le cose più simili tra loro, si insinua la parvenza come la più bella delle menzogne; infatti l’abisso più tenue è il più difficile da superare. Per me – come potrebbe esistere un al-di-fuori-di-me? Non esiste un fuori! Ma questo noi lo dimentichiamo in ogni suono che emettiamo; com’è dolce che noi dimentichiamo!
Non sono stati donati alle cose e nomi e suoni, perché l’uomo trovi in ristoro nelle cose? Il parlare è una follia bella: con esso l’uomo danza su tutte le cose. Com’è dolce ogni discorso e ogni bugia di suoni! Con suoni il nostro amore danza su arcobaleni multicolori. – […].
(Così parlò Zarathustra, Il convalescente)