Reading Nietzscheani – Caos – Estratti scelti per la terza lettura

Reading Nietzscheani – Caos
Gli estratti scelti
Domenica 19 novembre 2023, ore 11
Accademia Giuditta Pasta – Palazzo Valli Bruni, via Rodari 1 – Como

Ingresso libero con prenotazione a questo link

Sils-Maria

Qui me ne stavo e attendevo, nulla attendevo,
al di là del bene e del male, or della luce
godendo, or dell’ombra, tutto semplice gioco,
e lago e meriggio, tutto tempo senza meta.
E d’improvviso, amica! Ecco che l’Uno divenne Due –
E Zarathustra mi passò vicino…
(La gaia scienza, appendice)

Il nostro nuovo «infinito». Fino a che punto si estenda il carattere prospettico dell’esistenza,
o se essa addirittura non abbia oltre a ciò un altro carattere, se un’esistenza senza
spiegazione, senza «senso», non diventi appunto un «nonsenso», se, d’altra parte, ogni
esistenza non sia già essenzialmente un’esistenza che spiega – tutto questo, com’è giusto,
non può essere deciso nemmeno attraverso la più diligente analisi, l’autoindagine
dell’intelletto più penosamente coscienziosa; infatti, in questa analisi, l’intelletto umano
non può fare a meno di vedere se stesso sotto le sue forme prospettiche e soltanto in esse.
Non possiamo girare con lo sguardo il nostro angolo: è una curiosità disperata voler
sapere quali altre specie d’intelletto e di prospettive potrebbero ancora esserci: per
esempio, se chissà quali esseri possono avvertire il tempo a ritroso, oppure
alternativamente in senso progressivo e regressivo (con la qual cosa sarebbe data un’altra
direzione della vita e un altro concetto di causa ed effetto). Ma io penso che oggi per lo
meno siamo lontani dalla ridicola presunzione di decretare dal nostro angolo che solo a
partire da questo angolo si possono avere prospettive. Il mondo è piuttosto divenuto per
noi ancora una volta «infinito»: in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso
racchiuda in sé interpretazioni infinite. Ancora una volta il grande brivido ci afferra – ma
chi mai avrebbe voglia immediatamente di divinizzare ancora, alla maniera antica, questo
mostruoso mondo ignoto? E di adorare forse, da questo momento, questa cosa ignota
come «colui che è ignoto»? Ah, in questo ignoto sono comprese troppe possibilità non
divine d’interpretazione, troppa diavoleria, scempiaggine, bizzarria d’interpretazione –
quella nostra umana, anche troppo umana, interpretazione, che conosciamo..
(La gaia scienza, aforisma 374)

Epilogo. Ma mentre a guisa di conclusione dipingo pian piano questo oscuro interrogativo,
e appunto ho ancora intenzione di richiamare alla memoria dei miei lettori le virtù del
leggere bene – oh che virtù obliate e ignorate son queste! – ecco che si fa sentire intorno a
me uno strepito di risa maliziose e giulive quant’altre mai, di veri e propri spiriti folletti; i
genii del mio stesso libro mi piombano addosso, mi tirano le orecchie e mi richiamano
all’ordine: «Non ne possiamo più,» mi gridano «basta, finiscila con questa musica nera
come i corvi. Non è chiaro mattino intorno a noi? E verdi, morbide valli e prati, il regno
della danza? Ci fu mai un’ora migliore per essere lieti? Chi ci canterà una canzone, una
canzone mattutina così assolata, così lieve, cosi aerea, che non impaura i grilli – che i grilli
anzi invita a cantare e ballare insieme? Meglio una rozza e villica cornamusa che questo
liuto misterioso, queste grida di malaugurio, voci sepolcrali e sibili di marmotta, di cui ci
ha fatto dono fino a oggi, nelle sue selvagge contrade, lei signor eremita e musicante
dell’avvenire! No, basta con questi suoni! Intoniamo piuttosto musiche più amabili e
gioiose! ». — È questo che vi aggrada, miei impazienti amici? Ebbene! Chi non vi
compiacerebbe volentieri? Già la mia cornamusa sta aspettando, così pure la mia voce –
può darsi che risuoni un po’ rauca, ma contentatevi! In compenso siamo in montagna.
Quel che però vi capiterà di udire, è se non altro nuovo, e se non lo comprenderete, se
fraintenderete chi canta, poco male! Ormai questa è «la maledizione del cantore».” Tanto
maggiore sarà la chiarezza con cui potrete ascoltare la sua musica e la sua aria, tanto più
facile sarà per voi anche a suo talento danzare. Volete voi questo?…
(La gaia scienza, aforisma 383)

Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo
nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai
vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa
mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa
indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa
sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così
pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo
capovolta – e tu con essa, granello di polvere!». — Non ti rovesceresti a terra, digrignando i
denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un
attimo immane in cui questa sarebbe stata la tua risposta: « Tu sei un dio, e mai intesi cosa
più divina! »? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire
una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda che ti porresti ogni volta e in ogni
caso: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte? » graverebbe sul tuo
agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non
desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello?
(La gaia scienza, aforisma 341)

L’origine del nostro concetto di «conoscenza». Questa spiegazione la prendo dalla strada; ho
sentito qualcuno del popolo che diceva: «lui mi ha riconosciuto»
– al che mi sono chiesto: che cosa intende propriamente il popolo per conoscere? Che cosa
vuole, allorché vuole «conoscere»? Nient’altro che questo: qualcosa d’ignoto dev’essere
ricondotto a qualcosa di noto. E noi filosofi — abbiamo veramente inteso per conoscenza
qualcosa di più? Il noto, vale a dire: ciò cui siamo così abituati da non meravigliarcene più,
la nostra vita di tutti i giorni, una qualunque regola in cui siamo piantati, tutto quanto, in
genere, ci fa sentire a casa nostra: e allora? Il nostro bisogno di conoscere non è appunto
questo bisogno di cose note? La volontà di scoprire, tra tutto quello che è estraneo,
inusitato, problematico, qualche cosa che non ci renda più inquieti? Non potrebbe essere
l’istinto della paura a comandarci di conoscere? Il giubilo di chi conosce, non potrebbe
essere precisamente il giubilo di un recuperato senso di sicurezza?
. Quel filosofo s’immaginava di aver «conosciuto» il mondo, allorché lo ebbe ricondotto
all’«idea»: ah, non fu perché l’«idea» gli era così nota, così abituale? Perché ormai era quasi
interamente scomparso il suo timore dell’«idea»? –
Oh, come sono di poche pretese questi uomini della conoscenza! E si considerino, poi, in
questo senso i loro principi e le loro soluzioni degli enigmi del mondo! Se essi ritrovano
nelle cose, tra le cose, dietro le cose, quello che purtroppo a noi è ben noto, per esempio la
nostra tavola pitagorica, la nostra logica, il nostro volere e bramare, come sono subito
felici! Giacché, «ciò che è noto, è riconosciuto»: in questo son tutti d’accordo. Anche i più
cauti tra loro pensano che per lo meno il noto sia più facilmente riconoscibile dell’ignoto;
che per esempio sia prescritto dal metodo il prendere le mosse dal «mondo interiore», dai
«fatti della coscienza», poiché essi sarebbero il mondo a noi più conosciuto! Errore degli
errori! Il noto è l’abituale, e l’abituale è il più difficile a «conoscere», cioè a vedere come
problema, cioè a vedere come ignoto, come lontano, come «fuori di noi»… La grande
certezza delle scienze naturali in rapporto alla psicologia e alla critica degli elementi della
coscienza – scienze innaturali si potrebbe quasi dire – gravita proprio sul fatto che quelle
prendono l’ignoto come oggetto: mentre è quasi qualcosa di contraddittorio e di insensato
il voler prendere in generale come oggetto il non ignoto…
(La gaia scienza, aforisma 355)

La vita come ricavato della vita. Per quanto l’uomo possa espandersi con la sua conoscenza,
apparire a se stesso oggettivo: alla fine non ne ricava nient’altro che la propria biografia.
Umano troppo umano, aforisma 513)

Quell’imperatore teneva sempre presenta la caducità di tutte le cose, per non prenderle
troppo sul serio e per mantenere la calma in mezzo a esse. A me sembra al contrario che
tutto abbia troppo valore per poter essere così fuggevole; io cerco un’eternità per ogni
cosa: sarebbe lecito versare in mare i più preziosi unguenti e vini? – e la mia consolazione è
che tutto ciò che è stato è eterno: il mare lo rigetta a terra.
(Frammenti postumi, 1887-1888)

Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni ‘così fu in un ‘così volli che fosse!’ –
solo questo può essere per me redenzione!
Volontà – è il nome di ciò che libera e procura la gioia: così io vi ho insegnato, amici miei!
Ma adesso imparate ancora questo: la volontà, di per sé, è ancora come imprigionata.
Volere libera: ma come si chiama ciò che getta in catene anche il liberatore?
‘Così fu’ – così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria.
Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato.
La volontà non riesce a volere a ritroso; non potere infrangere il tempo e la voracità del
tempo, – questa è per la volontà la sua mestizia più solitaria.
Volere libera: ma che cosa può inventare il volere medesimo per liberarsi della propria
mestizia e prendersi giuoco della sua prigione?
Ahimè, ogni carcerato va fuor di senno! E, nell’insensatezza, anche la volontà imprigionata
redime se stessa.
Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; ‘ciò che fu’ – così si
chiama il macigno che la volontà non può smuovere.
E così fa rotolare sassi piena di malumore e di rovello, e si vendica contro tutto quanto non
provi il suo stesso rovello e malumore.
Così la volontà, invece di liberare, infligge sofferenza: e oggetto della sua vendetta, per
non poter volere a ritroso, è tutto quanto sia capace di soffrire.
Ma questo, soltanto questo, è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il tempo
e il suo ‘così fu’. In verità, una grande follia alloggia nella nostra volontà; e fu maledizione
per tutte le cose umane che questa follia imparasse ad avere spirito!
Lo spirito di vendetta: amici, su nient’altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto; e
dov’era sofferenza, sempre doveva essere una punizione.
‘Punizione’, infatti, chiama la vendetta se stessa: con una parola bugiarda, si dà
ipocritamente una buona coscienza.
E poiché in colui che vuole è la sofferenza di non poter volere a ritroso, – così il volere
stesso e la vita in tutto e per tutto dovrebbero essere – punizione!
Ed ecco che sullo spirito si accumulò nube su nube: e alla fine la demenza si mise a
predicare: «Tutto perisce, perciò tutto è degno di perire!»
«E la giustizia stessa consiste in quella legge del tempo, per cui il tempo non può non
divorare i propri figli»: così andava predicando la demenza.
«Le cose sono ordinate moralmente in base al diritto e alla punizione. Oh, dov’è la
redenzione dal flusso delle cose e dalla punizione che di ‘esistenza’ porta il nome?». Così
andava predicando la demenza.
[…]
Ma, fratelli, la conoscete già, la filastrocca della demenza!
Via da tutte queste filastrocche, io vi condussi quando vi insegnai: «la volontà è qualcosa
che crea».
Ogni ‘così fu’ è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che
crea non dica anche:
«ma così volli che fosse!».
– Finché la volontà che crea non dica anche: «ma io così voglio! Così vorrò!».
[…]
(Così parlò Zarathustra, Della redenzione)

Dall’esperienza. L’illogicità di una cosa non è una ragione contro la sua esistenza, bensì una
condizione di essa.
(Umano troppo umano, §515)

La finalità nella natura. Chi, da spregiudicato investigatore, segue la storia dell’occhio e
delle sue forme nelle infime creature e mostra tutto il graduale divenire dell’occhio, deve
giungere a questo grande risultato: la vista non è stata lo scopo che ha accompagnato la
nascita dell’occhio, ma si è invece venuta a determinare quando il caso ebbe combinato
insieme l’apparato visivo. Uno soltanto di questi esempi, e le ‹‹finalità›› ci cadono come
bende dagli occhi!
(Aurora, §122)

Ragione. Com’è venuta la ragione nel mondo? Com’è giusto che arrivasse, in modo
irrazionale, attraverso il caso. Si dovrà indagare questo caso, come un enigma.
(Aurora, §123)

[…] Nell’uomo creatura e creatore sono congiunti: nell’uomo c’è materia, frammento,
sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell’uomo c’è anche il creatore, il
plasmatore, la durezza del martello, la divinità di chi guarda e ch’è anche un settimo
giorno – comprendete voi questa antitesi? […].
(Al di là del bene e del male, §225)